L’aria nello Studio 1 di Rete4 era spessa, vibrava di quella elettricità statica che precede le serate in cui la tv non si limita a intrattenere, ma cerca il nervo scoperto del Paese.

Fuori, Roma era stretta nella morsa di un dicembre gelido e umido, col traffico impazzito sulla Tiburtina che sembrava riflettere il nervosismo di un’Italia in apnea.

Dentro, sotto le batterie di alogene che sparavano un calore bianco, artificiale, Paolo Del Debbio camminava avanti e indietro come un felino in gabbia, testando la resistenza del pavimento e la pazienza della regia.

La sigla esplose, un mix di bassi e trombe che scosse le gradinate, dove il pubblico — selezionato per rappresentare la pancia ribollente dell’Italia — applaudiva a comando, ma con una sincerità negli occhi che non si finge.

Erano facce segnate: pensionati col cappotto sulle ginocchia, partite IVA con la fronte aggrottata, madri di famiglia a fare i conti con il carrello della spesa, giovani precari che misurano il futuro in settimane.

DEL DEBBIO METTE KO TUTTO L'ODIO DI KARIMA MOUAL PER GIORGIA MELONI E  MATTEO SALVINI - YouTube

Del Debbio li guardò uno per uno, sistemò la giacca, si voltò verso la telecamera centrale.

Il LED rosso si accese.

“Buonasera, buonasera a tutti”, esordì con voce roca, come a grattare via la vernice delle retoriche per arrivare al metallo arrugginito della realtà.

“Siamo qui, un’altra settimana è passata, e sento dire di tutto: che è finita, che siamo ai titoli di coda, che il governo ha il fiato corto.

Stasera ne parliamo.

Dritto per dritto.”

Fece una pausa, abbassò gli occhiali sul naso, sbirciò gli appunti, poi alzò lo sguardo verso il parterre.

A sinistra, seduta con postura impeccabile e sguardo affilato, c’era Karima Moual.

Tailleur blu elettrico, espressione da checkmate annunciato: sembrava pronta a sferrare il colpo definitivo, convinta di avere in mano le carte vincenti di una partita a poker lunga tre anni.

“Karima,” iniziò Del Debbio, scendendo dal predellino e avvicinandosi, mani in tasca, oscillando leggermente, “ho letto i giornali stamattina.

Sembra che abbiate apparecchiato la tavola per il funerale politico di Giorgia Meloni.

È così?

La luna di miele è diventata un divorzio?”

Moual non aspettava altro.

Prese il microfono con gesto scattante, sistemò una ciocca dietro l’orecchio, e partì con un tono didascalico, intriso di quella certezza morale di chi si sente dalla parte giusta della storia.

“Non è questione di editoriali, Paolo.

È questione di realtà.

La narrazione della ‘underdog’ che salva la patria non regge più.

Siamo alla fine di un ciclo, e l’odore di sconfitta arriva fin dentro Palazzo Chigi.

Le elezioni non sono un miraggio, sono una scadenza che fa tremare i polsi.

Perché?

Perché hanno tradito il patto sociale con gli italiani.”

Del Debbio rimase in silenzio, sopracciglia inarcate, mezzo sorriso scettico.

Fece cenno di proseguire.

“Arrivo al punto dolente: la sanità,” incalzò Moual.

La parola cadde come un macigno.

Il pubblico mormorò, qualcuno annuì vigorosamente: era un nervo scoperto.

“Le immagini di ogni giorno: barelle nei corridoi, medici che scappano nel privato, liste d’attesa infinite.

Questo è il capolavoro del governo Meloni.

Smantellato il sistema pubblico per favorire le cliniche degli amici.

La gente muore aspettando un esame, e il governo attacca la magistratura e strizza l’occhio ai miliardari americani.

La sinistra — con tutte le difficoltà — oggi è l’unica alternativa responsabile: senza welfare non c’è futuro.”

Del Debbio si tolse gli occhiali con lentezza esasperante, li chiuse, iniziò a picchiettarli sul palmo.

Il silenzio si fece pesante.

Si voltò verso una signora in seconda fila con sciarpa rossa.

“La signora annuisce,” disse.

“Perché quando si parla di salute, non si scherza.”

Poi si girò di scatto e puntò gli occhiali chiusi verso Moual come fossero un fioretto.

“Però, Karima, qui bisogna intendersi sulle parole.

Hai usato verbi pesanti: ‘smantellare’, ‘tradire’.

Hai detto ‘sinistra responsabile’.

Io faccio il giornalista: se la Meloni sbaglia, lo dico.

Ma se vieni a raccontare che questo governo ha tagliato i fondi alla sanità mentre la sinistra li garantiva, dici una balla.

E le balle, nel mio studio, non passano.”

Moual provò a intervenire.

“Paolo, i servizi sono peggiorati…”

“Aspetta,” la sovrastò.

“CARTA CANTA.”

Sventolò fogli evidenziati.

“Fondo sanitario nazionale: cifra più alta della storia italiana.

Mai — sottolineo mai — nemmeno durante il Covid, erano stati stanziati così tanti miliardi in valore assoluto.

Parliamo di risorse vere, per assunzioni e rinnovi.

Certo che ci sono liste d’attesa e caos nei pronto soccorso.

Ma di chi è la colpa?

Di chi mette soldi oggi, o di chi per dieci anni ha chiuso i rubinetti?”

Abbassò la voce, mescolando rimprovero e lezione.

“La tua ‘sinistra responsabile’ dov’era tra 2011 e 2020, quando i governi sostenuti dal PD hanno tagliato miliardi?

Dov’era quando avete introdotto il numero chiuso a Medicina, che oggi ci costringe a importare medici?

Avete bloccato il turnover per anni.

Ora venite a dire che la colpa è di chi tappa i buchi.”

“Demagogia,” sbottò Moual.

“Non puoi paragonare il contesto: c’era lo spread a 500, la crisi del debito.

Oggi l’inflazione mangia quei fondi.”

“Ah, ecco,” esclamò Del Debbio, allargando le braccia.

“Quando tagliano loro, è colpa del contesto.

Quando mette soldi la destra, non basta mai.

Questo doppio pesismo manda i matti.

Ed è per questo che la tua previsione sulla fine della Meloni rischia di essere un desiderio, non realtà.”

Applauso spontaneo.

Del Debbio lo placò con un gesto.

“Fatti: sanità a fondi record.

Occupazione ai massimi storici, dati Istat.

Spread?

Dovevano arrivare le cavallette, dovevamo fallire dopo il 2022.

Siamo qui: mercati comprano il nostro debito, economia tiene meglio di Francia e Germania.

Se questa è agonia, c’è gente che pagherebbe per stare così.”

Moual scosse la testa, sorriso sarcastico.

“Bravissimo a girare la frittata.

Ma non puoi negare il disagio sociale.

Povertà che si allarga, e avete tolto il reddito di cittadinanza lasciando la gente per strada.”

Del Debbio si passò la mano tra i capelli, sospirò.

“Il reddito,” mormorò.

Poi fisso in camera.

“La sinistra si ricorda dei poveri quando deve usarli come scudo.

Parliamo di ‘affamare i poveri’?

Hai detto che hanno tolto il reddito e lasciato la gente per strada.

Hai sentito i dati sull’occupazione?

La differenza è filosofica: voi avete pensato che la dignità si compra con un bonifico, tenendo le persone sul divano.

Avete creato una generazione di assistiti.

Questo governo ha detto: chi non può lavorare si aiuta davvero; chi può, va a lavorare.

E la notizia shock è che la gente è andata a lavorare.”

Abbassò il tono, intimo.

“Io vado nei mercati, Karima.

La gente mi dice: finalmente ho un contratto.

Magari non è il lavoro della vita, ma mi sento utile.

Questa è dignità.

La vostra era dipendenza.”

La musica di pubblicità iniziò a salire.

“No, ora ti fermi,” chiuse Del Debbio.

“Tieniti il colpo.

Dopo parliamo di sicurezza e confini.”

La luce rossa si spense.

Tensione palpabile.

Del Debbio bevve un sorso d’acqua.

Moual scriveva furiosamente sul blocco, pronta al round due.

Dieci secondi, rientro.

“Bentornati,” disse con voce più bassa.

“Prima soldi, lavoro, ospedali.

Ora sicurezza.

È il sapere chi entra e chi esce da casa nostra.”

Sul ledwall, mappa del Mediterraneo.

“Karima,” esordì fissando la mappa, “per anni avete raccontato che l’immigrazione era inarrestabile.

Poi è arrivata la Meloni: nel 2025 gli sbarchi crollano.

Accordo con l’Albania — che voi avete definito ‘lager’ — funziona da deterrente.

I trafficanti capiscono che l’aria è cambiata.

Domanda semplice: avevate torto voi, o ha ragione la Meloni?”

Moual scosse la testa, sorriso amaro.

“Propaganda sulla pelle dei disperati.

Tu guardi i numeri, io guardo i centri in Albania: vergogna giuridica e umanitaria, ci costa milioni che potevamo spendere in sanità.

Avete creato prigioni a cielo aperto fuori dai confini, solo per non far vedere i poveri agli italiani.

E nelle città?

Milano, Roma, Torino: polveriere.

Perché questo governo non fa integrazione.

Avete smantellato accoglienza diffusa, tagliato corsi di italiano.

Se tratti un essere umano come rifiuto e lo lasci senza documenti e senza lavoro, finirà nella criminalità.

La sicurezza non si fa con manganelli, si fa con inclusione.

State creando fabbriche di criminali.”

Del Debbio fece cenno alla regia.

Cartella 3: rimpatri e reati.

Due colonne: 2019/2020 vs 2025.

“Parole bellissime dal Libro Cuore,” attaccò.

“Io vado a Termini e in Centrale.

Chi trovo a spacciare, scippare, molestare?

Quelli arrivati quando governavate voi.

Figli della vostra accoglienza senza regole.

Raccogliere tutti senza dare futuro non è solidarietà, è cinismo.”

Applauso improvviso.

“Dici che la Meloni crea criminali?

Questi ragazzi che delinquono sono arrivati cinque-sei anni fa, quando i confini erano un concetto ‘fascista’.

Li avete messi nelle cooperative, qualcuno s’è arricchito, poi finiti i soldi: arrangiati.

Ora il governo rimpatria chi non ha diritto e blocca partenze per fermare il circolo vizioso.

E tu dai la colpa alla Meloni del degrado nelle stazioni?”

“È il governo in carica,” gridò Moual.

“Sono passati tre anni: non potete dare colpa al passato.

Salvini aveva promesso di ripulire le città, e sono più insicure di prima.”

Del Debbio sorrise, sardonicamente.

“I furti aumentano leggermente in alcune aree?

Sai cos’è aumentato davvero?

Arresti e processi per direttissima.

Prima, con la scusa del disagio e della tenuità del fatto, chi rubava usciva in due ore.

Oggi, con le nuove norme, chi delinque sta dentro.

Dà fastidio a certa intellighenzia che preferisce il carnefice alla vittima.”

Indicò un uomo anziano in platea.

“Tre furti in due anni: primi due sotto il governo precedente, archiviati.

Il terzo, mese scorso: ladro irregolare con decreto di espulsione del 2021, preso, processato, in attesa di rimpatrio nel CPR che voi volete chiudere.

‘Almeno ora vedo lo Stato’, mi ha detto.”

Si voltò su Moual.

“La percezione di insicurezza c’è perché per anni avete permesso zone franche.

La Meloni fa bonifica.

Serve tempo.

Dire che la soluzione è più corsi di lingua mentre la gente ha paura della metro significa vivere su Marte.”

Moual non mollava.

“La vostra ‘bonifica’ è repressione.

Militarizzate le città.

Accordo con l’Albania è punta dell’iceberg: svendete diritti umani per voti.”

“La storia ci giudicherà,” rispose Del Debbio, quasi solenne.

“Intanto ci giudicano gli elettori.

E vedo l’Europa copiare il modello Meloni: Germania chiude, Francia respinge a Ventimiglia, Svezia espelle.

O sono diventati tutti fascisti, oppure la Meloni aveva visto lungo: l’immigrazione illegale di massa è incompatibile con la tenuta sociale.”

Gesto circolare.

“Voi parlate di isolamento.

Io vedo von der Leyen che ringrazia a Roma, cancelliere tedesco che chiede consigli.

Vi brucia che una donna di destra, dipinta come mostro, sia diventata modello.”

“Problemi si risolvono con cooperazione,” tentò Moual.

“Con sviluppo dell’Africa.”

“Il Piano Mattei,” la interruppe Del Debbio.

“Quello che avete deriso.

L’Italia fa accordi energetici e di sviluppo nel Nord Africa mentre la Francia viene cacciata.”

Guardò l’orologio: tempo agli sgoccioli.

“C’è un elefante nella stanza,” disse.

“Il mondo è cambiato: Trump alla Casa Bianca, Musk a ridisegnare la burocrazia americana.

Voi fermi agli anni ’90.

Tra poco parliamo di questo.”

Rientro.

Sul ledwall, una foto: Trump nello Studio Ovale, Elon Musk in maglietta, Giorgia Meloni stringe la mano al Presidente.

Del Debbio seduto, gambe accavallate, occhiali per una stanghetta, occhi fissi su Moual.

“Eccoci,” piano.

“L’ultimo miglio.

Guardala.

Per te è l’asse del male?”

“Dignità nazionale,” rispose Moual.

“Quella foto è sudditanza a un’agenda estremista.

Meloni a Washington da vassallo: accetta i dazi.

Sdogana Musk: un uomo che ha insultato i nostri giudici.

Salvini applaude.

Abbiamo un miliardario americano che detta legge.

Se questa è sovranità…”

Del Debbio si alzò, si avvicinò allo schermo, sfiorò il volto di Musk.

“‘Sudditanza’ parola grossa.

Ti ricordi il memorandum sulla Via della Seta con la Cina?

I porti svenduti?

E quando andavate col cappello in mano dalla Merkel?

La verità è che vi dà fastidio che l’Italia abbia scelto il campo occidentale senza se e senza ma.

Sì, Musk è ingombrante.

Sì, frasi pesanti.

Ma oggi guida la riforma più importante dell’amministrazione americana: taglia sprechi, licenzia burocrazia inutile.

Magari ne avessimo uno qui, a segare enti che mangiano soldi pubblici.”

Boato di approvazione.

Del Debbio tornò su Moual, puntando un dito.

“Dici che Meloni è debole con Trump?

Ha capito prima di tutti che il vento era cambiato.

Mentre la sinistra tifava Harris e insultava Trump, la nostra premier costruiva ponti.

Risultato: Italia interlocutore privilegiato negli USA.

Francia isolata, Germania nel caos.

Noi al centro.

Se arrivano dazi, Meloni è l’unica che può alzare il telefono e farsi rispondere.

Voi, al centralino.”

“Illusione,” ribatté Moual, raccogliendo le carte con gesto nervoso.

“Scommettete su cavallo pazzo.

Quando il conto arriverà, sarà salato.

Gli italiani non vogliono guerre commerciali.

La Meloni cadrà.”

Del Debbio sorrise, definitivo.

“‘Stabilità’: voi?

State litigando su chi deve fare il leader del campo largo.

Divisi su Ucraina, Israele, lavoro.

La gente vi guarda e non capisce.

Guarda la Meloni e, magari non d’accordo su tutto, vede una linea.”

Si avvicinò alla telecamera, volto che riempiva lo schermo.

“La dottoressa Moual dice che la fine è vicina.

Io non ho la sfera di cristallo, ho il termometro della strada.

Gli italiani hanno problemi, sì: incazzati per le liste d’attesa, preoccupati per i prezzi.

Ma quando si guardano indietro e vedono quello che c’era prima, si tengono stretta la Meloni.

Tra un governo imperfetto che decide e un’armata Brancaleone che litiga e ci svende al primo burocrate, la scelta è fatta.”

Del Debbio diede un colpetto leggero sulla spalla di Moual, che restò di sasso.

“Grazie a Karima Moual.

Grazie a voi.

Dritto per dritto, sempre.

Buonanotte.”

Le luci si spensero sull’ultimo accordo della sigla, lasciando lo studio in penombra.

Del Debbio si allontanò verso i camerini, consapevole di aver portato a casa il punto.

Gli ospiti restarono qualche istante senza parole: non era stata una rissa, era stata una dissezione.

E nel brusio che seguì, la sensazione comune era nitida: la tv aveva appena raccontato non solo un confronto, ma un bivio — tra retorica e contabilità, tra slogan e procedure, tra desiderio e diagnosi.

Il resto lo avrebbe fatto il Paese, nel silenzio freddo di un dicembre che prometteva un nuovo giro di giostra.

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