Lo studio televisivo vibrava di un silenzio elettrico, quella frequenza sottile che anticipa l’impatto, come l’aria risucchiata un attimo prima dell’esplosione.
Giovanni Floris si aggiustò il nodo della cravatta per la terza volta in un minuto, il monitor di servizio rimandava la sua immagine impeccabile, professionale, con quel mezzo sorriso obliquo — una sintesi di scetticismo intellettuale e bonaria sopportazione del mondo — ma nello stomaco sentiva un grumo freddo.
Non era la prima volta che ospitava Giorgia Meloni: l’aveva avuta quando guidava un partitino al 4%, quando urlava dai palchi dell’opposizione, e all’inizio del suo mandato, ma quella sera l’aria era diversa.
I sondaggi non crollavano, l’economia non era implosa come avevano predetto le cassandre, eppure Floris sentiva di avere in mano la carta vincente.
Il mondo era cambiato: Donald Trump aveva vinto in America, l’Europa scricchiolava, la narrazione perfetta era lì, servita su un piatto d’argento, scritta per mesi dagli editorialisti.

“Tre minuti alla diretta,” gracchiò l’assistente di studio nell’auricolare, Floris guardò gli appunti: una trappola logica, un movimento a tenaglia, da una parte l’Europa dei tecnocrati, rigida, che chiedeva conti e fedeltà, dall’altra l’America di Trump, protezionista, dazzi e disimpegno, in mezzo lei, schiacciata, marginale.
La porta laterale si aprì.
Entrò Giorgia Meloni.
Non camminava, marciava: passo rapido, economico, privo di esitazioni, tagliere scuro come un’armatura moderna.
Non sorrideva, non era accigliata: aveva l’espressione di chi sta andando a sbrigare una pratica fastidiosa ma necessaria.
Salutò i cameraman con un cenno, ignorò gli applausi tiepidi, si sedette sulla poltroncina bianca di fronte.
“Presidente,” disse Floris accogliendola.
“Floris,” rispose lei, voce bassa, roca, controllata.
La sigla partì, le luci rosse delle telecamere si accesero come occhi di predatori.
Floris si sentì nel suo elemento: era il padrone di casa, le regole le dettava lui.
“Buonasera e bentornati,” intonò, cadenza ritmata, “abbiamo un mondo in fiamme: guerra in Europa, Medio Oriente che brucia, e un’America che ha scelto di voltare pagina tornando a Donald Trump.”
Si voltò verso la Meloni.
Il primo affondo doveva essere chirurgico.
“Presidente, le leggo una cosa: Paolo Gentiloni, commissario europeo, dice che le parole di Trump sulla NATO sono un epitafio, una pietra tombale per l’alleanza.
Dice che l’Europa rischia di restare sola, e lei sembra minimizzare.
La domanda è semplice: è isolata?
L’Europa la guarda con sospetto perché è ‘amica’ di Trump, e Trump la guarda con sospetto perché lei ha sostenuto l’Europa.
È ferma nel guado, l’acqua sale: non si sente sola?”
La telecamera staccò sul primo piano della Meloni: Floris si aspettava rabbia, vittimismo, difesa d’ufficio, la Meloni comiziante.
Invece vide qualcosa che lo inquietò.
Meloni non si mosse, non batté ciglio, lo fissò con intensità quasi fisica, come se guardasse attraverso di lui.
Poi le labbra si incresparono in un sorriso che non raggiunse gli occhi: gelido, di compatimento.
“Floris,” esordì.
Il tono non era difensivo, era stanco.
“La osservo e mi chiedo: ma lei si riascolta mai?”
Floris fu colto in contropiede.
“Prego?”
“Dico sul serio,” continuò Meloni, appoggiandosi allo schienale con disinvoltura disarmante, “sono tre anni che vengo qui — o che l’ascolto da casa — e la narrazione è sempre la stessa, è un disco rotto.
Meloni isolata, Meloni in difficoltà, i mercati ci puniranno, l’Europa ci boccerà.
Ora la nuova hit: Meloni irrilevante tra Trump e Bruxelles.”
“Presidente, i fatti,” provò a inserirsi Floris, alzando un dito.
“No, Floris: i fatti sono quelli che lei ignora,” lo interruppe, senza alzare la voce ma aumentando l’intensità.
“I fatti dicono che lo spread è stabile, la borsa tiene, Zelensky — un paese in guerra — è venuto a Roma l’altro ieri a parlare con me.
Non con Gentiloni.
Con me.
Se fossi irrilevante, perché tutti passano da Palazzo Chigi?”
Floris sentì il fastidio montare: non doveva permetterle di prendere il controllo così presto.
“Presidente, lei la butta sulla tattica, ma la strategia è assente.
Trump vuole dazi sui nostri prodotti, vuole smantellare un’Unione Europea che ci dà i fondi.
Non può essere ‘amica’ di chi ci vuole distruggere: è una contraddizione.
Tiene il piede in due scarpe che camminano in direzioni opposte.
Prima o poi si spaccherà.”
“Ecco,” disse Meloni, quasi sussurrando, “ecco l’errore fondamentale della vostra analisi.
Vedete la politica estera come un talent show, come tifoserie: o stai con la curva Nord o con la Sud, o sei cheerleader di Trump o vestale della von der Leyen.
Non avete capito niente di come sta girando il mondo.”
“Mi illumini, allora,” ribatté Floris, con sarcasmo.
“È il realismo,” scandì lei.
“Realismo cinico, se vuole, ma è l’unica cosa che ci tiene vivi.”
Si sporse in avanti, gomiti sulle ginocchia, invade lo spazio visivo del conduttore.
“Lei cita Gentiloni.
Gentiloni difende l’istituzione.
Ma lui sa — come lo so io, come lo sa Macron — che l’Europa da sola, militarmente, non esiste.
Siamo un gigante economico, forse, ma un nano politico e un verme militare.
Senza ombrello americano siamo nudi sotto la grandine.
E Trump lo sa.
Trump non ci odia: non gli importa di noi.
Guarda i numeri: vendiamo a loro più di quanto compriamo, non paghiamo per la nostra difesa.
Dice: basta, pagatevi il biglietto.
Lei chiama questo odio; io lo chiamo conto da pagare.
Il mio lavoro non è fare l’offesa, la morale in studio.
Il mio lavoro è trattare sul prezzo del biglietto per non far fallire l’Italia.”
Floris sentì il terreno slittare sotto i piedi.
Meloni non negava la crisi, la reinquadrava: appariva l’unica adulta nella stanza.
Colpirla dove fa male: l’Ucraina.
“Presidente,” indurì il tono, “il conto più salato lo sta pagando Kiev.
Si è presentata come la più atlantista, la più dura contro Putin, e ora che Trump vuole imporre una pace che somiglia a una resa, lei tace.
Accetta che Putin si prenda il Donbass pur di non litigare con la Casa Bianca.
Questo non è realpolitik, è tradimento dei valori occidentali.”
Ci fu un attimo di silenzio.
Meloni abbassò lo sguardo per un secondo, poi lo rialzò: gli occhi erano due fessure.
“Credevo non avesse il coraggio di dirlo,” pronunciò.
“Tradimento, resa.
Lei parla di guerra, Floris: l’ha mai vista?
O la guarda solo sui monitor?”
La pubblicità entrò nelle case, lasciando Floris con una inquietudine che non provava da anni.
Al rientro, gravità.
L’aria pesava di più.
Floris bevve un sorso d’acqua, la gola restava secca.
Meloni non si era mossa, assetto da combattimento intatto.
“Siamo tornati in diretta,” provò a recuperare.
“Presidente, lei mi ha chiesto se ho mai visto la guerra: retorica facile.
Io racconto fatti: l’Ucraina sta perdendo e l’Occidente — con Trump e con i silenzi come il suo — si prepara a lasciarla sola.”
Meloni fece un gesto con la mano, come per spazzare via fumo invisibile.
“Lei continua a usare parole come promessa, valori, tradimento.
Sono nobili, stanno benissimo in un editoriale della domenica.
Ma la geopolitica si fa con ferro, sangue e numeri.”
Assunse una postura didattica, quasi professorale, con durezza sottostante.
“Mi accusa di accettare una resa?
Parliamoci chiaro.
La Russia non si ritirerà mai.
Non tornerà ai confini del 1991, non restituirà la Crimea con un sorriso.
Ha un’economia di guerra che regge, una massa demografica sacrificabile che noi non abbiamo, e un deterrente nucleare.
Hanno il jolly, la carta che chiude la partita in cinque minuti.
Non l’hanno usata, speriamo non la usino mai.
Ma ce l’hanno.”
“E quindi?” incalzò Floris, fiutando il punto morale.
“Ci arrendiamo al bullo perché ha la pistola?”
“No,” rispose secca Meloni.

“Il messaggio è che non si vince una guerra convenzionale contro una potenza nucleare, a meno che non si sia disposti alla guerra totale.”
Si voltò verso il pubblico, poi tornò a fissare il conduttore.
“L’unico modo per ricacciare i russi oltre il confine è un intervento diretto della NATO.
Non armi, non soldi: uomini, scarponi nel fango, caccia nei cieli, morti — migliaia, forse milioni di europei.”
Si sporse ancora, viso duro come pietra.
“Lei è pronto, Floris?
A ricevere la cartolina precetto domani, mettere l’elmetto, lasciare lo studio, salutare la famiglia e andare a morire nel Donbass?
O, se non lei, i suoi figli, i figli dei telespettatori?”
Silenzio tombale.
Floris aprì la bocca, non uscì nulla.
Domanda brutale, demagogica forse, ma di potenza devastante.
“Vede che tace,” incalzò Meloni, spietata.
“Volete la vittoria totale, ma volete che a morire siano gli ucraini.
Fate gli eroi con il sangue degli altri.
Il mio cinismo — come lo chiama lei — è tentare di fermare il massacro, prendendo atto dei rapporti di forza.
Gli Stati Uniti lo hanno capito; Trump, con tutti i suoi difetti, lo ha capito.
Questa guerra non si vince sul campo senza escalation mondiale.
E siccome nessuno vuole la Terza guerra, bisogna trattare.
Trattare in guerra significa che nessuno ottiene tutto.”
Floris cercò di riorganizzare le idee: era stordito.
Meloni aveva spostato il piano dal moralismo alla carne da cannone.
“Ma presidente,” provò a ribattere, voce meno sicura, “se accettiamo questo, l’Europa diventa irrilevante, terra di conquista.
Il progetto americano vede l’UE come un nemico.
Non sente il dovere di difendere l’unità europea?
Senza Europa, l’Italia è finita.”
Meloni rise: breve, nervosa.
“Che paradosso, Floris.
Lei, europeista convinto, mi chiede di difendere l’Europa dai ‘cattivi’ americani.
L’America vuole chiudersi, isolazionismo: ‘America first’.
Ma vuole comandare nel cortile con tecnologia, finanza, standard.
L’Europa ha un problema enorme: compra poco dagli USA e vende tanto, è ricca, vecchia e disarmata.
Gli americani ci guardano e dicono: perché devo pagare io per difendere gente che mi fa concorrenza e mi critica?
Hanno torto o ragione, non importa: importa che lo pensano.
Io non svendo l’Europa: spiego ai colleghi che il tempo dei sogni è finito.
Se vogliamo che l’America resti, dobbiamo pagare.
Se se ne va, dobbiamo difenderci da soli, non con chiacchiere sui diritti civili, ma con eserciti.”
Si fece tagliente.
“Lei dice che sono isolata; io dico che sono l’unica a dire la verità sgradevole ai leader europei: la festa è finita.
E a Trump sto dicendo: attento, se fai crollare l’Europa, regali il mondo alla Cina.
Sto facendo da ponte, Floris — un ponte su un abisso.
Mi critica perché il ponte traballa?
Dovrebbe ringraziare che esista ancora un ponte.”
Floris sentì la sudorazione aumentare sotto la camicia: ogni argomento veniva afferrato, stritolato e rispedito al mittente.
La narrazione dell’isolamento si sgretolava contro un muro di pragmatismo brutale.
Aveva ancora una carta: la coerenza.
“Presidente, tutto molto bello, ma lei è Giorgia Meloni: ‘Io sono Giorgia, madre, cristiana’.
Ha costruito una carriera sulla coerenza, sul non scendere a patti.
Ora la vediamo fare la mediatrice, la democristiana internazionale.
Non teme che la sua base — chi l’ha votata per rompere il sistema — la veda diventare parte del sistema?”
Meloni si fermò un istante, il viso perse l’espressione da combattimento e assunse una calma inquietante.
“Ah, Floris,” disse piano, “adesso siamo al punto.
Quando non potete attaccarmi sui risultati, mi attaccate sull’anima.”
La telecamera inquadrò i due di profilo, come pugili all’ultimo round.
Floris credeva di aver trovato la crepa.
Non aveva calcolato una cosa: Meloni non era più all’opposizione e non intendeva giocare secondo le regole del talk show.
“Floris,” la voce ferma come acciaio, “mi chiede se ho paura di perdere il mio popolo?
No.
Perché il mio popolo vive nel mondo reale, non nello studio di martedì.
Fa la spesa, paga le bollette, e sa che governare significa fare scelte difficili, non urlare alla luna.”
Poi cambiò tono: predatorio.
“Parliamo di lei, Floris.
Parliamo di coerenza.
Io sono qui, ci metto la faccia, rispondo alle sue domande — anche a quelle faziose.
Ma lei, chi è?”
Floris fu spiazzato.
“Io… sono un giornalista, faccio domande.”
“No,” alzò un dito, “lei non fa solo domande.
Lei fa politica.
E la fa nel modo più comodo: senza candidarsi, senza prendere voti, senza responsabilità.”
Si girò completamente verso di lui, ignorando le telecamere: attacco frontale.
“Mi accusa di essere ambigua?
Guardi se stesso.
Qui gioca a fare l’arbitro imparziale — sorrisetto, sopracciglio, aria distaccata: ‘sentiamo l’altra campana’.
Poi la vedo ospite altrove: lì getta la maschera.
Non fa domande, dà sentenze: ‘Meloni è un disastro, la destra incapace, siamo alla rovina’.
Lei è un delegittimatore seriale.
Sperate che l’Italia affondi pur di dire ‘avevo ragione’.”
“Questo è un attacco alla libertà di stampa,” esclamò Floris, cercando l’applauso.
Il pubblico rimase in silenzio.
“No, Floris: è un attacco all’ipocrisia,” rispose gelida Meloni.
“La libertà di stampa è sacra.
La libertà di mistificare un po’ meno.
Dice che sono isolata all’estero: bugia, e lei lo sa.
Sa che ho ottimi rapporti con la Commissione, sa che sto tessendo una tela difficilissima.
Non può dirlo, perché crollerebbe il castello di carte che avete costruito: pericolo fascista, incompetenza, isolamento.
Avete un problema: avete raccontato un mostro che non esiste.
Avete promesso cavallette e uscita dall’euro: non è successo.
Ora non sapete cosa dire e vi inventate l’irrilevanza.”
Meloni si alzò in piedi: gesto non concordato, regia nel panico, telecamere allargano.
Floris rimase seduto, piccolo, schiacciato, guardandola dal basso.
“Io non sono isolata, Floris,” dominò la scena.
“Io sono l’unica cosa che sta tra caos e ordine, per l’Italia.
Sto tenendo insieme un Occidente che voi avete indebolito con chiacchiere ideologiche, odio per chi pensa diversamente, puzza sotto il naso.
Avete sputato per anni sui valori di nazione, difesa, identità.
Ora che la Storia — quella vera, tragica — bussa, venite a piangere perché Trump è cattivo e Putin armato.
Siete patetici.”
Fece una pausa, guardò l’orologio.
“Il mio tempo è scaduto.
Ho un Consiglio dei ministri domani, telefonate a Washington e Kiev.
Ho un lavoro vero.”
Si tolse il microfono con un gesto secco, lo appoggiò sul tavolino di vetro.
Il tump risuonò nelle casse come un colpo di martello.
Si voltò e uscì con lo stesso passo marziale con cui era entrata.
Giovanni Floris rimase solo.
La telecamera indugiò su di lui per cinque interminabili secondi: era pallido, guardò gli appunti pieni di frecce, schemi, trappole dialettiche non scattate.
Guardò la sedia vuota: il due di coppe aveva ribaltato il tavolo.
Provò il sorriso obliquo, ma uscì una smorfia tirata.
“Ringraziamo il Presidente del Consiglio… pubblicità,” disse con voce flebile, incrinata.
Le luci si abbassarono, i tecnici entrarono per il blocco successivo con i soliti ospiti rassicuranti.
Floris si passò una mano sulla fronte: sentiva freddo.
Non era solo una sconfitta televisiva, era la sensazione netta e terrificante di essere diventato improvvisamente vecchio.
Di essere lui, e non lei, quello isolato dalla realtà.
Il disco si era rotto davvero, e la musica era finita.
Ma la storia non finisce alle porte dello studio.
Fuori, l’onda corre: clip che esplodono sui social, frame del microfono appoggiato come un verdetto, sguardi tesi, domande rimaste senza risposta.
I riassunti serali parleranno di “scontro acceso”, “tensione”, “premier che alza i toni”, ma chi ha visto sa che è successo altro: il copione rassicurante è franato, e sotto c’era la geologia ruvida della realtà.
La lezione è spietata e utile.
Se porti l’avversario nel tribunale morale, devi accettare la controverifica nel tribunale operativo.
Se invochi isolamento, porta prove, non sensazioni.
Se parli di guerra, conta i morti potenziali, non solo i principi.
La democrazia adulta non si fa con l’indignazione, si fa con piani, costi, tempi e responsabilità.
Quella sera, per qualche minuto, la tv ha smesso di recitare.
E il pubblico — incredulo, sospeso, poi in esplosione di mormorii — ha visto la differenza tra teatro e governo.
Non è simpatia, non è tifo: è la richiesta che chi parla regga l’urto del reale.
Il resto — gli hashtag, le liturgie, gli applausi comandati — può attendere.
La politica, quando la Storia bussa, non può.
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