Torino, ultimo sabato prima di Natale, il centro addobbato a festa, famiglie in strada, vetrine piene, la città che si prepara alle luci lunghe dell’inverno.
Poi il cambio di scena, brusco come uno strappo.
Lo sgombero del centro sociale Asilo di via Alessandria, ribattezzato e replicato negli anni in altre forme e spazi, accende la miccia di un pomeriggio che diventa subito un caso nazionale.
“È solo l’inizio”, il messaggio che gira negli ambienti antagonisti, una promessa o una minaccia a seconda di chi guarda.
Nel primo pomeriggio parte il corteo.
Gli organizzatori parlano di oltre duemila persone, non solo torinesi, ma arrivate da Milano, Genova, dal Nordest, con bandiere No Tav, drappi palestinesi, striscioni contro polizia e governo.
L’itinerario punta al cuore della città, la retorica è quella dello scontro, e lo scontro puntualmente arriva.
Il cordone delle forze dell’ordine viene forzato in più punti, volano bottiglie, sassi, bombe carta.
Le cariche di alleggerimento lasciano segni di gomma sull’asfalto e un silenzio teso tra una sirena e l’altra.
Per ore Torino si blocca.
Cassonetti rovesciati, fermate dei bus saltate, strade impraticabili, lo shopping natalizio tranciato come un filo.
Il bilancio ufficiale parla chiaro: sette agenti feriti, sette uniformi al pronto soccorso, sette famiglie in ansia al telefono.
Questo è il dato di realtà, tutto il resto è interpretazione.
Dentro questa cornice arriva la frase che spacca il Paese e riapre una faglia politica profonda.
Matteo Salvini pubblica un video degli scontri e scrive: “Da una parte donne e uomini in divisa che difendono la legalità, dall’altra i soliti violenti.
Lo sgombero di Ascaso/Aska/Ascatasunà è solo l’inizio.
Ruspe sui centri sociali, covili di delinquenti”.
Poche parole, abbastanza per incendiare il dibattito.
“Ruspe” non è una parola neutra, è un simbolo, un marchio narrativo che Salvini usa da anni per segnalare tolleranza zero, fine delle zone franche, rottura con un passato di ambiguità.
Il vicepremier non parla di sociologia, non parla di cultura giovanile, non parla di “disagio”, parla di legalità e ordine pubblico.
Il suo frame è semplice: lo Stato si riprende lo spazio o lo spazio sarà preda di chi alza la posta con la violenza.
A sinistra, la reazione è doppia, come se la frase avesse colpito due nervi.
Da un lato la condanna degli scontri, definita “inaccettabile”.
Dall’altro la denuncia di “strumentalizzazione” da parte del governo, accusato di gonfiare l’episodio per giustificare una stretta ideologica contro i centri sociali tout court.
Chiara Appendino, ex sindaca oggi in Parlamento, riassume questa linea: sgombero inevitabile, guerriglia da condannare, ma serve più personale, più prevenzione, interventi equilibrati, non propaganda.
Nel mezzo resta il dettaglio che pesa come un macigno: “La partita è solo iniziata”, la frase circolata negli ambienti antagonisti, non smentita, non ritirata.
È qui che Salvini alza il tiro.
Se lo Stato arretra, dice, vince chi minaccia.
Le “ruspe” diventano allora, nel suo racconto, un gesto politico, non una vendetta.
Un messaggio a “isole” che negli anni si sono trasformate in cittadelle ideologiche con un margine di impunità di fatto, almeno nella percezione di una parte consistente di opinione pubblica.
Il punto dolente è che milioni di italiani, guardando i video, vedono agenti in ospedale, città bloccate, attività in ginocchio, e chiedono una cosa sola: ordine, regole, conseguenze.
La spaccatura corre lungo un asse noto ma mai del tutto metabolizzato.
Per chi difende i centri sociali, quegli spazi sono anticorpi culturali, laboratori di mutualismo, luoghi di socialità alternativa, spesso colpevolizzati per il comportamento di minoranze violente.
Per chi sostiene la linea dura, quegli stessi luoghi sono rifugi per frange organizzate abituate a scambiare l’impunità simbolica per licenza di scontro.
La politica, come spesso accade, si schiera più per riflesso che per diagnosi.
Le parole “ruspe” e “covili di delinquenti” concentrano il fuoco mediatico, mentre il merito scivola.
Che cosa è successo nell’operazione di sgombero.
Quali procedure sono state seguite.
Chi ha autorizzato cosa e quando.
Qual è il perimetro legale di un’occupazione che dura anni e interagisce con il quartiere tra progetti sociali e conflitti.
Queste domande vengono subito risucchiate dall’onda dei commenti.
Scompare la distinzione tra chi protesta e chi devasta, tra chi sfila e chi lancia bombe carta, tra chi rivendica un’idea e chi cerca lo scontro.
Nel racconto che prende corpo in serata, lo schema è già polarizzato.

Per il centrodestra, la misura è colma, e l’ordine pubblico pretende un salto di qualità: sgomberi mirati, chiusure definitive degli immobili abusivamente occupati, sequestri e interdizioni, pene severe per devastazione e saccheggio, Daspo urbani estesi, tracciamento dei capi corteo.
Per la sinistra, il rischio è di scambiare una questione di ordine pubblico con un’operazione ideologica di repressione, in cui si getta la rete per colpire un’intera rete sociale e culturale, facendo di ogni erba un fascio.
Il clima diventa incandescente perché alla base non c’è solo Torino, c’è un decennio di rimozioni e di incomprensioni.
C’è il dossier No Tav con i suoi anni di blocchi e scontri.
C’è l’onda pro Palestina con cortei accesi e parole d’ordine che si intrecciano con le tensioni globali.
C’è la geografia delle grandi città, con quartieri dove gli spazi autogestiti si sono fatti istituzioni ombra, tra doposcuola, concerti, assemblee, ma anche tra antagonismo e frizione costante con le forze dell’ordine.
Quando arriva una giornata come questa, le narrazioni preesistenti scattano come molle.
La destra vede confermata l’idea che “troppa tolleranza” genera arroganza.
La sinistra vede confermata l’idea che “la stretta securitaria” è un pretesto per mettere a tacere dissenso e critica sociale.
Intanto, tra gli strappi e le frasi a effetto, resta il conto di chi ha preso le botte, di chi ha lavorato per ore in assetto antisommossa, di chi ha chiuso il negozio alle tre perché le strade erano impraticabili, di chi ha portato i figli via dal centro perché “oggi non è aria”.
La domanda che attraversa le redazioni e i palazzi è la stessa di sempre, ma oggi brucia.
Qual è il confine tra libertà di manifestare e violenza organizzata.
Chi lo disegna, come lo si fa rispettare, e con quali strumenti.
La risposta “ruspe” è un’immagine prima che un piano, ma nella politica contemporanea le immagini valgono più dei dossier.
Segnalano intenzione, marcano un perimetro, galvanizzano una base stanca di sfumature.
Nella stessa giornata, arrivano prese di posizione istituzionali più misurate.
Il Viminale parla di “tutela dell’ordine pubblico” e “tolleranza zero verso i violenti”, con la promessa di individuare i responsabili grazie a immagini e testimonianze, e con l’annuncio di valutare nuove direttive su cortei non preavvisati, itinerari a rischio, e gestione dei caschi e delle protezioni per gli agenti.

La Prefettura difende lo sgombero come atto dovuto dopo sentenze e diffide.
La Questura rivendica l’uso “proporzionato” della forza, mentre circolano video che ciascuno usa per sostenere la propria tesi.
Sullo sfondo, l’eterna discussione sui centri sociali torna a chiedere un lessico che l’Italia non trova da trent’anni.
Sono “spazi di libertà” o “zone franche”.
Sono “centri culturali” o “covi”.
Sono “laboratori sociali” o “fucine di violenza”.
La ricetta che molti invocano quando si calmano i toni parla di distinzioni e di responsabilità.
Distinguere tra chi organizza doposcuola e teatro sociale e chi organizza il lancio di pietre.
Distinguere tra spazi concessi, convenzioni trasparenti e occupazioni abusive.
Distinguere tra manifestare e devastare.
Responsabilizzare gli organizzatori come avviene in altri Paesi, con cauzioni, assicurazioni, percorsi concordati, sanzioni pesanti per chi devìa e per chi guida la deviazione.
Chi invoca le ruspe come metafora della legalità sostiene che senza un atto di rottura le distinzioni restano scuse.
Chi teme la ruspa come strumento d’ideologia sostiene che senza un lavoro di cesello si alimenta solo la radicalizzazione.
Nel frattempo, la città deve vivere.
Le associazioni dei commercianti chiedono ristori e piani straordinari di sicurezza nel periodo natalizio.
I sindacati di polizia chiedono tutele, equipaggiamenti migliori, pene certe per chi aggredisce gli agenti, protocolli chiari per evitare l’effetto “carne da macello” quando i cortei cercano lo scontro.
Le amministrazioni locali, strette tra pressioni contrapposte, invocano una regia nazionale che non lasci i territori soli a gestire l’alternanza tra sgomberi, ricorsi, rioccupazioni.
L’Italia è di nuovo davanti a un bivio retorico che è anche un bivio pratico.
Si può dire “tolleranza zero” e poi fare i conti con le carte bollate, le sentenze, i diritti, le fragilità urbane, i ragazzi che cercano luoghi e finiscono in ambienti dove l’ideologia sostituisce la socialità.
Si può dire “dialogo” e poi scoprire che senza una linea chiara il dialogo diventa contabilità di danni.
Le ruspe, oggi, sono una parola che divide perché non lasciano spazio all’equivoco.
Non sono un tavolo, sono una serranda abbassata.
Non sono una mediazione, sono un atto.
Per alcuni è finalmente una prova di governo.
Per altri è una scorciatoia pericolosa.
Nel racconto politico, la mossa di Salvini ha un calcolo preciso.
Parlare all’elettorato che chiede ordine, presidiare il tema sicurezza mentre la premier presidia i dossier europei, ridisegnare la bandierina identitaria della Lega nel perimetro della coalizione.
Nel racconto opposto, la sinistra rischia l’ennesimo inciampo comunicativo, divisa tra chi condanna e chi giustifica, tra chi teme l’onda securitaria e chi teme di perdere l’elettorato moderato se appare indulgente con la violenza.
La realtà, come spesso accade, è più testarda delle narrazioni.
Oggi il Paese ha visto un centro storico trasformato in campo di battaglia, ha contato feriti in divisa, ha rinviato uscite e acquisti, ha letto una frase netta di un ministro.
Domani il Paese attenderà i nomi, le misure, i processi, i risarcimenti, le interdizioni.
Sul tavolo c’è anche una domanda che non ammette scorciatoie.
Qual è il modello di convivenza urbana che vogliamo difendere.
Uno in cui lo Stato arretra per evitare lo scontro, lasciando crescere spazi di conflitto sospeso.
O uno in cui lo Stato entra, sgombera, chiude, apre bandi, ricolloca funzioni, e pretende regole uguali per tutti.
Perché anche questo è il non detto dietro la parola “ruspe”.
Non basta abbattere.
Serve costruire.
Serve sostituire il vuoto con qualcosa che non sia un altro vuoto.
Serve accompagnare la repressione del reato con la proposta di spazi trasparenti dove cultura e socialità non diventino coperture per la militanza violenta.
In chiusura, la giornata che ha incendiato Torino lascia un messaggio che nessuna parte dovrebbe ignorare.
Quando la violenza diventa linguaggio politico, lo Stato deve parlare chiaro, con legge e con misura.
Quando la politica diventa solo slogan, la piazza diventa l’unico luogo dove le parole si trasformano in oggetti.
La linea dura, se sarà linea di governo e non solo tweet, si misurerà nei tribunali e nelle strade, non nei talk.
E la linea del dialogo, se vuole esistere, dovrà riscattarsi dall’ambiguità e distinguere con coraggio tra chi protesta e chi usa la protesta per colpire.
“Ruspe sui centri sociali” non è una formula di urbanistica.
È una scelta di campo.
Spetta alla democrazia dimostrare che, qualunque sia la scelta, non è il clamore a vincere, ma la legge che funziona, la città che vive, la politica che si assume la responsabilità di dire non solo “no”, ma soprattutto “come”.
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