Marco Rizzo non trattiene nulla: in un attacco senza precedenti, smaschera i sindacati e la sinistra, accusandoli di aver tradito i lavoratori.
Privilegi nascosti, promesse vuote e ipocrisia esplodono davanti agli occhi del pubblico.
La verità, cruda e incontestabile, lascia la sinistra impotente e confusa, mostrando un volto di arroganza e menzogna che fino ad oggi era rimasto celato.
Un momento di shock politico che scuote la scena nazionale e mette in luce quanto la distanza tra la retorica e la realtà possa essere devastante.
La caduta di facciata è totale, senza appello.
C’è un silenzio strano, non quello delle ricorrenze, ma quello che precede il boato.

Nello studio lucido di luci bianche, la voce di Rizzo entra come una crepa nel vetro, e in pochi secondi la superficie si spezza, lasciando scorrere ciò che molti non volevano più sentire.
Qualcuno ha preso in giro il Paese e i lavoratori negli ultimi decenni, chiede, e la domanda, ripetuta, sembra un martello contro una porta che nessuno ha il coraggio di aprire.
No, non è una caccia al colpevole singolo, dice, ma la diagnosi di un sistema che non è più credibile.
Il vero tema è che non siete, non siamo, convincenti.
Detta così, sembra una premessa, ma è una sentenza.
I salari sono il primo atto d’accusa, la prima scena del crimine economico.
Nel 2000, due milioni di lire come salario medio, una cifra che nella memoria collettiva suona come un’àncora, non come un numero.
Oggi mille euro che non bastano neppure a difendere la dignità, un importo che divora la fine del mese prima che arrivi la metà.
Il ceto medio scivola verso il basso, i contorni si sfumano, la parola “proletarizzazione” torna dal passato e si accampa al centro del tavolo.
Artigiani, commercianti, agricoltori, piccole e medie imprese intrappolate in una compressione lenta e spietata, una morsa che non fa rumore ma lascia lividi profondi.
Rizzo non fa poesia sociale, mette sul banco l’oggetto contundente della realtà.
Il sindacato concertativo, quello che ha costruito palazzi e tavoli, oggi viene percepito come rappresentante dei sindacalisti, non dei lavoratori.
È un colpo che sposta l’aria in studio, perché non si limita a dire che qualcosa non va, dice che si è rovesciato il senso di una funzione.
La politica, dall’altra parte, è diventata così aliena da spingere la gente a disertare le urne.
Il voto non è più premio o punizione, è un gesto raro, residuale, un’abitudine che si spegne come una candela lasciata alla corrente.
Rizzo ricorda le regionali, percentuali schiaccianti, eppure minoranze sociali che decidono per interi territori.
Chi ha vinto ha preso un pugliese su quattro, un campano su quattro, un veneto su quattro, e il dato più spaventoso non è chi ha vinto, ma chi non ha votato.
Tra poco, avverte, andranno a votare soltanto gli assunti dall’una o dall’altra parte.
È una provocazione che suona come premonizione.
Se non arriva un’inversione, se le risorse restano la scusa eterna, il ciclo si chiude su se stesso e la democrazia si assottiglia a rituale.
Poi c’è la questione che nessuno vuole maneggiare senza guanti: il potere della finanza rispetto alla politica.
Le banche, negli ultimi tre anni, 141 miliardi di profitti aggiuntivi, un numero che lampeggia come un’insegna al neon nell’oscurità dei salari fermi.
Il governo chiede tre miliardi di anticipo d’imposta, una monetina nel cappello del gigante.
Chi governa l’Italia, chiede Rizzo, le banche o la politica.
La domanda scaglia un’ombra lunga sui banchi, perché interroga tutti e non salva nessuno.
E quando la sinistra risponde che quell’anticipo finirà sulle spalle dei correntisti, la frustata diventa doppia: male la destra, malissimo la sinistra.
In mezzo, i lavoratori guardano il ping pong delle responsabilità come si guarda un temporale dalla finestra, sapendo che l’acqua entrerà comunque sotto la porta.
L’energia è il secondo capitolo di un bilancio sentimentale e industriale che non torna.
Eni ed Enel, partecipate al 30%, amministratori nominati dal governo, profitti a doppia cifra, 9,7 miliardi l’anno scorso.
SNAM, Italgas, crescite medie del 50%, mentre in Europa le sorelle si fermano al 20%.
Che cosa chiede il governo, che cosa chiede la cosiddetta sinistra.
Niente e niente, ripete, e il riecheggio è un corridoio vuoto.
Dove si prendono le risorse, se non lì dove la rendita ha divorato l’ascensore sociale.
Avete parlato dei contratti, avete messo in campo due miliardi, dice, e poi scaglia il confronto che non lascia scampo: 2,5 miliardi per l’Ucraina, i cessi d’oro di Zelensky, la frase che accende il corto circuito, che taglia la stanza e costringe tutti a scegliere se reagire al linguaggio o alle cifre.
La logica di Rizzo è lineare, lo stile è abrasivo, la sostanza è una voragine di coerenza mancata.
Non basta invocare il bene superiore se il bene immediato di chi lavora resta in coda, non basta predicare geopolitica se la geografia degli scontrini racconta lo svuotamento dei portafogli.
In questo quadro, i sindacati appaiono come torri di controllo con radar spenti.
Hanno accumulato rituali, hanno perso prossimità, hanno smarrito quel gesto antico e decisivo di farsi vedere ai cancelli quando le fabbriche tremano.
E la sinistra, stretta tra l’identità di carta e l’assenza di strumenti, non riesce più a parlare la lingua dei turni, delle bollette, del costo della benzina, del mutuo che si mangia il sonno.
Rizzo inchioda questo vuoto con la crudezza di chi non ha più tavoli a cui sedersi.
A cosa serve un’opposizione che non oppone nulla di concreto, a cosa serve una maggioranza che non governa i gangli da cui si estraggono le risorse.
Il suo dito si posa sui numeri con la naturalezza del perito, ma la voce rimane quella dell’operaio che esce dal capannone e non vede il domani.
Quando parla di salari, non parla di percentuali, parla di frigoriferi che suonano vuoti dopo la terza settimana.
Quando parla di ceto medio, non parla di grafici, parla di botteghe con luci spente e serrande che scendono per sempre.
L’effetto in studio è paradossale: chi vorrebbe contestare il tono, inciampa nella sostanza.
Si può non condividere la forzatura, ma è difficile non sentire il colpo allo sterno delle cifre.
E allora la conversazione si sposta dove fa più male, sul ruolo reale della politica.
Se il potere non dirige i profitti straordinari verso il lavoro, se non tassa le rendite quando esplodono, se non vincola le partecipate a una missione civile oltre il bilancio, chi deve farlo.
La risposta che non arriva è già una risposta.
Il problema, dice Rizzo, non è l’assenza di risorse, è l’assenza di volontà.
La sua tesi non abbellisce le crepe, le illumina.
Da anni, continua, si è preferito il basso profilo con i forti e l’alta voce con i deboli.
Si è scelto di accontentare i salotti degli spread e di sgridare i tavoli dei contratti.
Si è finto di non vedere che il lavoro povero non è una degenerazione morale, è una scelta di modello produttivo.
E se non si vuole cambiare modello, almeno si abbia il coraggio di dirlo.
Il cuore dell’accusa è tutto qui, nella parola che scava: ridicolo.
Avete reso ridicoli i lavoratori, dice, non con gli insulti ma con l’insignificanza.
Li avete convinti che la loro voce valga meno di una trimestrale.

Li avete abituati a considerare normale che un contratto venga rinnovato a spanne, a briciole, a cerotti contabili che staccano la pelle ma non curano la ferita.
E intanto, i grandi numeri scorrono come fiumi sotterranei, invisibili a chi sta in superficie.
Nel montaggio feroce del suo discorso, la parola privilegi si veste di concretezza.
Non parla delle auto blu, parla delle zone d’ombra dove si decidono i margini, i bonus, le leve fiscali.
Non parla delle cene, parla dei consigli d’amministrazione.
Non parla di ideologia, parla di potere.
A quel punto, il telespettatore non ha più bisogno di essere persuaso, ha bisogno di vedere se qualcuno in studio ha una contromossa.
La domanda rimbalza in camera: chi governa, davvero.
Il governo tace sul cuore del problema, l’opposizione perde il filo, i sindacati contano le tessere.
Il Paese, intanto, conta i centesimi.
Rizzo affonda anche sulla liturgia della partecipazione.
Non basta chiamare piazze, bisogna legarle a risultati, a clausole, a vincoli.
Non basta invocare contratti, bisogna finanziarli andando a prendere i soldi dove stanno, non dove è più facile chiederli.
E i soldi, ripete, stanno nelle rendite straordinarie, nei profitti di posizione, nelle curve esagerate di settori regolati che hanno cavalcato crisi e volatilità.
Se non si vuole toccarli, almeno si abbia il pudore di non chiedere sacrifici a chi ha già dato tutto.
L’ultima parte del suo intervento è uno specchio senza cornice.
Dentro si vedono i lavoratori che scendono dal tram alle sei del mattino e quelli che lo prendono a mezzanotte.
Si vedono i negozi con l’insegna sbrecciata e gli scontrini che dicono “no contanti in cassa”.
Si vedono le periferie dove le luci dei capannoni sono diventate luci di magazzini logistici, e la paga oraria si ferma nel tempo.
È uno specchio che non fa sconti a nessuno, nemmeno a lui, perché quando dice non siete, non siamo, convincenti, si mette dentro la foto di gruppo.
Ma la responsabilità, sottolinea, non è un esercizio di stile, è un invito ad aprire i rubinetti giusti.
Prendete da chi ha preso troppo, ridate a chi ha dato tutto.
Non c’è nulla di più radicale e nulla di più semplice.
In studio, qualcuno prova a evocare le compatibilità, il vincolo esterno, l’Europa, gli equilibri.
Rizzo non sfugge, non strappa la pagina, la legge intera e poi rovescia: proprio perché ci sono vincoli, la politica serve a scegliere dove incidere.
Se si incide su chi lavora, si scelgono gli ultimi come bancomat.
Se si incide sulle rendite, si riconsegna dignità alla gerarchia dei valori.
Non è estremismo, è geometria.
Il finale non è un applauso, è un pugno sul tavolo.
O cambiamo rotta, o il Paese va a rotoli.
È una chiusura che non cerca amici, cerca decisioni.
E forse è per questo che in tanti, da casa, hanno sentito il bruciore del vero.
Perché la verità, quando è detta con i numeri, non ha bisogno di aggettivi.
E quando la politica non trova il coraggio di usare i numeri per cambiare i fatti, la scena si capovolge: non è più il pubblico a essere giudicato, è chi sta in scena a essere messo sotto processo.
In quell’aula televisiva, tra lampade fredde e pavimenti lucidi, è andata in onda una cosa semplice e spaventosa.
La distanza tra il dire e il fare è diventata un cratere.
E quando il cratere si apre sotto i piedi dei lavoratori, non c’è più tempo per i riti.
C’è solo da scegliere se stare dall’altra parte della fenditura, dove ci sono i salari, gli affitti, le bollette, o restare sul palco a ripetere copioni che non scaldano più nessuno.
Rizzo ha scelto.
Ora tocca agli altri mostrare se hanno ancora qualcosa da dire che non sia un’eco.
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