Le luci dello studio di DiMartedì non erano mai state così bianche, quasi cliniche, come se volessero incidere la superficie dei volti per estrarne la verità.
Giovanni Floris, seduto sul suo sgabello, teneva la postura di chi sa digerire una polveriera senza farla esplodere.
Davanti a lui due mondi, due memoir vivi della politica italiana: Pierluigi Bersani, l’uomo di bettola con l’odore di sigaro e sezioni di partito, e Francesco Storace, la voce ruvida della destra romana, più gladio che fioretto.
L’aria era pesante, il tema fissato come un bersaglio: il vittimismo del governo Meloni.
Bersani si sistemò la giacca, si sporse appena, incrociò le dita nodose e non guardò Storace, guardò Floris, come si guarda un tribunale invisibile che si chiama pubblico italiano.
“Vedi Giovanni,” iniziò, impastando flemma emiliana e ironia tagliente, “qui non siamo alla politica del lamento, siamo a un salto di specie.”
Snocciolò l’elenco del potere: Camera, Senato, ministeri, partecipate, tutto ciò che un governo sogna.

“E allora perché passano l’ottanta per cento del tempo a piangere?”
La pausa che seguì fu un piccolo teatro: “La Meloni si presenta come fosse in un garage contro il sistema, ma il sistema oggi è lei.”
Ogni problema aveva un colpevole esterno: Bruxelles, i giudici, i mercati, la congiuntura.
“È un assedio continuo, un vittimismo preventivo.”
Bersani abbandonò la bonarietà, entrò nel corpo vivo della sanità.
Parlò di liste d’attesa bibliche, di rinunce alle cure, di fondi mangiati dall’inflazione.
“È come un chirurgo che fa comizio mentre il paziente muore.”
Storace scosse il capo, un sorriso amaro sulle labbra, ma Bersani era un fiume e travolgeva gli argini.
Arrivarono le accise, i video al benzinaio, le promesse tagliate a metà dalla realtà.
“Da oppositori non vedevano le guerre, ora dicono che le guerre impediscono di fare.”
Il discorso toccò i diritti e la giustizia, il tic autoritario, la gogna sui magistrati sgraditi.
“L’autonomia dei poteri non è un favore, è la base della democrazia.”
Poi la Rai, viale Mazzini come un condominio occupato, telegiornali che sembrano cinegiornali.
“Voi siete ovunque e dite di essere emarginati, è il vittimismo dei forti, la forma più odiosa dell’arroganza.”
La voce si fece confidenziale, prendendo la stanza.
“Governare significa prendersi la responsabilità degli insuccessi, dire ‘abbiamo sbagliato’.”
“Voi avete bisogno di un nemico per esistere, siete passati dalla nazione alla fazione.”
Il silenzio in studio era una bussola ferma.
Bersani guardò all’Europa, parlò di dossier non toccati, di isolamento, di una vittima che torna a casa e chiama ostilità il vuoto di credibilità.
“La sindrome della sorella d’Italia perseguitata avvelena, trasforma la critica in tradimento.”
“Se dico che la legge di bilancio è una scatola vuota, non attacco l’Italia, faccio il mio mestiere.”
Il crescendo si chiuse su un quadro crudo: la politica come fiction di serie B, eroi senza macchia contro cattivi d’accatto.
Fu allora che Bersani lasciò cadere il macigno.
“Giovanni, se mi dai un’ora ti elenco le colpe, punto per punto, fino al mattino.”
La frase irrigidì l’aria.
Storace, fin lì compresso come una molla, non esplose: sorrise.
Si sistemò le carte, guardò un attimo la camera, poi Bersani, con lo sguardo di chi decide l’inizio della caccia.
“Un’ora,” esordì con voce bassa, ferma, “ecco la tragedia della sinistra: gli serve un’ora per spiegare perché ha perso e perché non la capisce più nessuno.”
La lama scese senza tremare.
“Se non ti è bastata una vita in politica per combinare qualcosa di decente, figurati un’ora in TV.”
L’affondo diventò metodo.
Storace elencò la memoria lunga: “Voi al governo avete sventrato la sanità con tagli lineari, precarizzato il lavoro col Jobs Act, affossato il salario minimo mentre vi eravate fatti maggiordomi d’Europa.”
“Ti serve un’ora perché non accetti la realtà: siete stati sfrattati dalla storia e dagli elettori.”
Il tono si fece tagliente, quasi sprezzante.
“VI siete chiusi nelle ZTL e negli attici vista centro, parlando di diritti astratti mentre le periferie chiedevano sicurezza e meno tasse.”
“Chi prova a mettere ordine, voi lo chiamate fascismo.”
Bersani provò a interloquire, ma la voce di Storace dominò lo spazio.
“Meloni non piange, combatte contro quelli come te, che per trent’anni hanno tenuto l’Italia con la testa sotto la sabbia.”
La sequenza fu chirurgica e personale insieme.
“Ti ricordi lo streaming coi Cinque Stelle? Il giaguaro da smacchiare? Il giaguaro ti ha mangiato pure la lavatrice.”
Il pubblico trattenne un mezzo sussulto.
“Voi avete inventato l’occupazione dello Stato e la chiamavate competenza, ora che governiamo noi con i voti la chiamate deriva autoritaria.”
La parola ipocrisia prese forma come un rilievo in controluce.
Arrivò la stoccata sui media, sulla casta intellettuale, sulle metafore diventate coperture del vuoto.
“Siete i signori del no e del pianto retroattivo.”
“Il vero vittimismo è il vostro, quello di chi la storia ha lasciato indietro.”
La sanità tornò come martello.
“Avete tagliato miliardi, e dopo due anni fate il conto alla Meloni: abbiate il pudore del silenzio.”
Il ritmo montava, poi si fermò per un sorso d’acqua, come si tempera una lama prima dell’ultimo colpo.
“Pierluigi, sei un pezzo d’antiquariato di pregio, parli bene, sei simpatico, ma sei fuori dal tempo.”
“Il mondo è cambiato, l’Italia è cambiata, e tu suoni il violino sul Titanic della sinistra.”
Floris tentò di cucire, di ricordare che l’opposizione ha diritto di fare opposizione.
“Ha il diritto di non fare la caricatura di sé stessa,” lo tagliò Storace.
“Ammettete che avete fallito.”
“Questo governo è l’unica alternativa credibile a una cozzaglia che non sa mettersi d’accordo nemmeno sul colore delle tende.”
“Prenditi pure la tua ora, ma mentre tu parli, noi ricostruiamo.”
Bersani guardò il tavolo, accennò un sorriso sbiadito, ma la verve sembrava essersi sciolta come neve alle luci.
Lo sguardo di Storace restò fisso, implacabile.
Lo studio entrò in una sospensione glaciale.

La narrazione del vittimismo, rovesciata come un guanto, si era trasformata in un processo alla credibilità, con l’ex segretario del PD schiacciato tra memoria e presente.
Quel silenzio non era rispetto, era un inventario.
Tutto ciò che era stato detto si depositava in sala come polvere dopo un’esplosione.
Bersani tentò di riprendere tono, ma le parole non trovavano presa.
Storace, senza alzare più i decibel, aveva spostato il baricentro.
Dal giudizio sul governo al giudizio su chi pretende di giudicare.
Il pubblico percepiva la frattura, non tra destra e sinistra soltanto, ma tra due modi di intendere la responsabilità.
Da una parte il racconto della colpa esterna, dall’altra il racconto della colpa interna, quella accumulata nel tempo e presentata come conto.
La regia indugiò sui volti, sulle mani, sugli occhi che non si incrociavano.
Floris riprese il filo, ma il tessuto era cambiato.
Non era più un talk, era una radiografia.
La radiografia di un’opposizione che sa graffiare ma fatica a reggere il contraccolpo quando la propria storia viene portata a giudizio.
La radiografia di una maggioranza che usa il contrattacco come colla per tenere insieme il frame identitario.
La questione del “vittimismo” si era incendiata, e nell’incendio aveva illuminato gli scaffali del passato.
Lì dove si accumulano tagli, riforme, streaming, metafore che oggi non reggono più.
A fine segmento, restava una domanda sospesa come una trave.
È vittimismo difendere il perimetro del consenso che ti ha portato al governo, o è vittimismo rivendicare l’autorità morale dopo aver perso il legame con il suo popolo?
La risposta non stava nel boato, ma nella tenuta del giorno dopo.
Nelle scelte, non nei monologhi.
Nelle coperture, non nei tweet.
DiMartedì aveva sofferto un gelo che non è comune ai talk di rissa.
Un gelo da cui si esce solo con la sostanza.
Per ora, il fotogramma resta.
Bersani a braccia larghe, pronto all’ora di accuse.
Storace con le braccia incrociate, pronto alla giornata di controstoria.
Il pubblico in apnea, le luci cliniche, Floris come anestesista di una sala dove la verità ha smesso di nascondersi dietro la retorica.
La sinistra, in quell’istante, è sembrata schiacciata dalle proprie contraddizioni.
La destra, in quell’istante, è sembrata alimentata dal contraccolpo.
E l’Italia, come spesso accade davanti alla TV, ha preso appunti senza alzare la mano.
Poi ha spento lo schermo, con un pensiero che brucia più di un insulto.
Chi ha davvero smesso di ascoltare chi?
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