Bruxelles non è solo corridoi di velluto, badge plastificati e diplomatici in fila ordinata.

Ieri l’aula si è accesa come raramente accade, con un confronto che ha rotto gli schemi del cerimoniale e ha mostrato le nervature vive della politica europea.

Ilaria Salis, europarlamentare dal piglio battagliero, ha preso la parola con un tono che sembrava un rasoio e l’ha usato contro il governo italiano e contro la Premier, Giorgia Meloni.

Il tema, all’apparenza tecnico, era la lista europea dei “paesi sicuri” per le procedure d’asilo, un dossier spesso relegato alle note a margine.

Ma stavolta è diventato la miccia di un dibattito esplosivo.

Salis ha iniziato con sarcasmi che hanno fatto sobbalzare i banchi della maggioranza, insinuando che il progetto fosse un cavallo di Troia per facilitare respingimenti e rimpatri “politicamente comodi”.

Ha evocato un’Europa “pronta a sbrigarsi solo quando a chiederlo è la destra”, accusando l’esecutivo italiano di spingere per procedure accelerate che, a suo dire, comprimono diritti e garanzie.

La sua voce non tremava, ma l’insofferenza era palpabile, soprattutto quando ha collegato la lista dei paesi sicuri al dossier Albania, parlando di “esperimenti extraterritoriali” e di “scorciatoie giuridiche”.

Three years later, Meloni emerges as the undisputed leader in Rome and  Brussels.

Il suo bersaglio non era solo la Premier, ma l’architettura intera di una maggioranza che a Bruxelles si presenta compatta e a Roma capitalizza il risultato politico.

In platea, sguardi incrociati e mormorii a tratti più rumorosi del regolamento consentito.

Quando Salis ha affondato sostenendo che “una lista fatta in fretta e furia su richiesta della Premier è la fotografia di un’Europa piegata”, si è percepito il cambio di temperatura.

La risposta di Meloni non si è fatta attendere, ed è arrivata con una freddezza chirurgica.

Prima ha tolto di mezzo l’accusa di “forzatura” istituzionale, ricordando che la governance europea prevede strumenti per accelerare procedure su dossier urgenti quando vi è ampia convergenza tra Stati membri.

Poi ha ribadito il principio cardine: “Paesi sicuri” non significa porte chiuse, ma canali chiari.

Vuol dire valutazioni rapide per chi proviene da contesti dove la protezione internazionale, in linea di massima, non è giustificata, così da concentrare risorse e tempi su chi veramente fugge da guerre, persecuzioni e torture.

Il passaggio successivo è stato il più incisivo.

Meloni ha legato il tema al nodo della credibilità europea.

Un sistema che non distingue, ha scandito, è un sistema che si inceppa, aumenta il contenzioso, allunga le attese e genera sfiducia tanto tra i cittadini quanto tra i richiedenti protezione.

“Difendere tutti significa non difendere nessuno”, ha detto, fissando i banchi della sinistra con una calma quasi tagliente.

In quel momento l’aula ha rallentato il respiro.

La Premier ha ricordato che la lista dei paesi sicuri è strumento previsto e usato in diversi Stati membri da anni, e che l’armonizzazione a livello europeo serve a evitare forum shopping, disparità di trattamento e rimbalzi procedurali che intasano i sistemi nazionali.

Ha aggiunto che le garanzie restano, perché il criterio di sicurezza è presuntivo e non assoluto: ogni caso può presentare circostanze particolari, ogni ricorso ha sede, ogni diritto individuale ha tutela.

Ma l’Europa, se vuole essere all’altezza, deve distinguere, categorizzare, decidere.

Ilaria Salis ha provato a ribattere, citando episodi e rapporti di ONG per sostenere che il concetto di “sicurezza” sia spesso contraddittorio e politico, una variabile che cambia a seconda del vento delle maggioranze.

Ha evocato rischi di rimpatri affrettati, ha denunciato la possibilità di errori sistemici, ha richiamato il Parlamento a una vigilanza che non sia solo simbolica.

Il suo tono si è fatto più acceso quando ha toccato il nodo dei giudici.

Ha parlato di magistrati “sotto attacco” e di tentativi, a suo dire, di delegittimare il controllo di legalità sulle scelte dell’esecutivo, soprattutto laddove si intersecano con accordi bilaterali delicati, come quelli con Paesi terzi per la gestione delle domande d’asilo.

In quell’istante, l’emiciclo era un arco teso.

Meloni, a quel punto, ha scelto la strada del dossier.

Ha messo sul tavolo tre concetti chiave.

Primo: senza una lista europea condivisa, si moltiplicano i tempi morti e i conflitti di competenza.

Secondo: l’efficacia nelle procedure non è un sinonimo di brutalità, ma di buona amministrazione.

Terzo: la protezione si difende se il sistema resta credibile agli occhi della maggioranza silenziosa che paga, attende e chiede regole.

La sua voce non si è alzata, ed è stato proprio questo a dare forza alla risposta.

Ha rivendicato il diritto-dovere di uno Stato a gestire i flussi con razionalità, ricordando che l’umanità senza ordine diventa impotenza e che l’ordine senza umanità diventa disumanità.

“L’Europa non deve scegliere tra cuore e testa”, ha concluso, “deve usarli entrambi”.

L’applauso che ne è seguito è stato netto, non fragoroso, ma compatto.

Salis ha ripreso il microfono con un inciso personale.

Ha spiegato che la sua opposizione non è un capriccio ideologico, ma l’esito di anni passati nei cortili dei centri, nelle periferie, nelle case occupate e negli sportelli legali dove la teoria cede alla pratica delle vite.

Ha detto che la lista dei paesi sicuri, se letta e applicata male, rischia di semplificare ciò che non si può semplificare.

Ha invocato finestre di verifica indipendenti, meccanismi di monitoraggio reale, trasparenza sugli errori e sulle correzioni.

Il suo sguardo era lucido, la voce più spezzata rispetto all’incipit, ma ferma nella sfida.

La Premier ha accolto la parte procedurale, promettendo che l’Italia spingerà per linee guida chiare e per audit periodici sull’attuazione, con indicatori pubblici e comparabili.

Ma non ha ceduto di un millimetro sul principio di base.

Il finale è stato una fotografia.

Da un lato l’idea di una politica che nasce dal conflitto sociale e dal sospetto verso lo Stato quando si fa macchina.

Dall’altro l’idea di uno Stato che chiede alla politica di reggere la complessità con strumenti selettivi, assumendosi il costo dell’impopolarità quando serve.

Nel mezzo, un’Europa che tenta di non spaccarsi tra Nord e Sud, tra chi vede i numeri e chi vede i volti, tra chi chiede velocità e chi chiede cautela.

Eppure qualcosa, ieri, si è mosso.

La Premier ha mostrato la postura di chi detta il tempo, risponde, chiude i file e passa al punto successivo senza perdere l’asse del discorso.

Non ha cercato il duello personale, ha ricondotto le stoccate a un piano istituzionale.

Ha citato articoli, procedure, competenze, come a dire che la politica, quando conta, si scrive nelle note tecniche.

Salis ha reso visibile la parte di Europa che teme la deriva dell’efficientismo senza garanzie.

Ha dato voce a una frangia di cittadinanza che sente la pressione del confine sulla pelle.

Ha posto domande scomode, e il suo tono urticante è servito a tenere acceso il faro su ciò che un algoritmo non vede.

Gli osservatori hanno colto il punto.

Non era una rissa da talk, era una lezione di geometria del potere.

La gestione dei flussi è il banco di prova di un’Unione che vuole restare aperta e governata.

La lista dei paesi sicuri è il cacciavite, non la casa.

Se usato bene, costruisce.

Se usato male, graffia.

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La serata si è chiusa con il brusio denso delle grandi occasioni, quando l’aula resta piena anche dopo la sospensione perché nessuno ha davvero finito di parlare.

Nei corridoi, staff e parlamentari riassumevano in tre parole la percezione comune: fermezza, metodo, controllo.

La parola “pontiera”, che in altre sedute era stata oggetto di ironie, ieri ha assunto la forma di un ruolo operativo.

La Premier ha fatto da ponte tra il linguaggio politico e la grammatica amministrativa, tra i consensi e i regolamenti, tra il tamburo dei social e il metronomo delle istituzioni.

Salis, al contrario, ha fatto da ponte tra il rumore della strada e il silenzio dei dossier, ricordando che dietro ogni riga c’è una persona capace di smentire una statistica.

Se l’obiettivo di Bruxelles era uscire dall’ambiguità, ieri ci è riuscita a metà.

Ha fatto un passo deciso verso l’armonizzazione delle procedure, senza cancellare il conflitto valoriale che le abita dentro.

E in questo spazio sospeso, l’Italia ha giocato da protagonista.

Per molti, il momento più rivelatore è stato l’istante in cui l’aula ha smesso di rumoreggiare.

Un secondo di silenzio carico, quello che segue una risposta non gridata ma ineludibile.

Non era un KO da prime time.

Era la fotografia di chi governa l’agenda e di chi la contesta.

La differenza, in politica, spesso è tutta qui.

A fine giornata, al di là degli schieramenti, resta una traccia concreta.

La lista europea dei paesi sicuri avanza su un binario accelerato, con l’impegno a inserire salvaguardie e monitoraggi.

L’Italia rivendica di aver spinto per una cornice comune che riduca i contenziosi e velocizzi le decisioni, senza derogare alle tutele individuali.

L’opposizione europea annuncia battaglia sugli standard applicativi, per impedire che la velocità diventi un sinonimo di superficialità.

La cronaca dice che l’aula ha visto un urto autentico, non una coreografia.

La politica, per una volta, non ha recitato.

Ha scelto.

E quando la scelta si vede, anche le polemiche cambiano sapore.

Se ieri Bruxelles è “esplosa”, oggi dovrà ricomporsi con il lavoro dei relatori ombra, degli uffici legali, dei gruppi tecnici che trasformano gli scontri in articoli, commi e allegati.

È lì che si capisce chi governa davvero la scena europea.

Non soltanto chi alza i toni, ma chi chiude i fascicoli.

Ieri, in quell’aula, la Premier ha chiuso più di un fascicolo aperto, rispondendo con fermezza e rapidità.

E la politica, al netto dei cori, ha riconosciuto quel gesto per ciò che è: la traduzione del potere in atti.

La discussione continuerà, com’è giusto.

Ma la linea, per adesso, è tracciata.

E quando la linea è chiara, persino le accuse più taglienti devono scegliere se diventare proposta o restare soltanto eco.

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