Il gelo umido fuori, il calore elettrico dentro lo Studio 20: l’aria vibra, i flash scattano a raffica, i calici tintinnano con prudenza studiata, e i cronisti si scambiano frasi a mezza voce come spie durante una tregua fragilissima.
È il brindisi di Natale di Mediaset, un rito, una liturgia che per decenni ha avuto un protagonista assoluto, e che oggi promette un epilogo diverso, quasi un controcanto in minore destinato però a diventare colonna sonora del 2026.
Al centro della scena non c’è più il Cavaliere, c’è Piersilvio Berlusconi, spalle dritte, voce bassa, doppiopetto che non fa una piega, e una calma che non tranquillizza ma taglia.
Non è l’esuberanza paterna, è una chirurgia fredda che usa le pause come leve e i sorrisi come punti di serraggio.
La sala tace quando prende il microfono, e il silenzio non è un vuoto: è un campo magnetico che stringe tutti, dal primo operatore all’ultimo deputato in fondo.
Piersilvio comincia come si comincia quando si prepara un passaggio di fase: gratitudine, memoria, riconoscenza.

Ringrazia Antonio Tajani per “il lavoro fatto nel periodo più difficile”, annoda i nomi della vecchia guardia in un rosario di fedeltà, ricorda la notte lunga del 2023 e la tenuta del simbolo, dei voti, della nave.
Le parole scaldano, ma il tempo verbale raffredda: è passato, non presente.
È il primo campanello che i veterani sentono nitido, come un diapason.
Sembra un’ovazione, è un preambolo.
Sembra un abbraccio, è un incorniciare.
Quando alzi il trofeo a chi ha “gestito l’emergenza”, dichiari che l’emergenza è finita, e se l’emergenza è finita, la funzione del reggente svanisce come condensa sul vetro.
Tajani applaude, ma gli occhi corrono veloci: da tecnico di Bruxelles conosce la grammatica della successione, e sa che il ringraziamento solenne è il ponte verso la porta.
La sala resta sospesa, e Piersilvio fa ciò che i comunicatori insegnano ai manager quando vogliono spostare un’azienda di corsia senza farla sbandare: pausa, sorso d’acqua, polsino sistemato, tonalità più grave.
Il quadro cambia in un battito di ciglia.
Niente enfasi, nessun attacco scomposto, solo la lama sottile dei numeri e delle percezioni.
“I valori di mio padre sono eterni”, dice, e qui nessuno osa fiatare.
“Ma il modo di portarli deve essere figlio del suo tempo.”
Questa frase ha la geometria delle dichiarazioni costituenti.
Da lì scivola nella diagnosi: non si può vivere di rendita, non basta il nome nel simbolo, i giovani guardano altrove, il ceto medio è orfano, gli imprenditori si raffreddano.
Sembra un’analisi, è un referto.
Il passaggio sulle “facce nuove” è la stoccata che irrigidisce le scapole in prima fila.
Non bastano i restyling di contorno, serve un cambio di mentalità: non è questione di età, dice Piersilvio, è questione di codice, di linguaggio, di velocità.
“Il problema non è essere anziani di età, il problema è essere vecchi di mentalità.”
Il gelo nei palmi è istantaneo.
Le mani battono per dovere, non per convinzione.
I parlamentari azzurri, quelli con radar sensibili, smettono di cercare Tajani con lo sguardo e cominciano a guardare Milano, non Roma.
Il baricentro, in dieci minuti, si è spostato di centinaia di chilometri.
La frase successiva, attenuata da formule cortesi, è dinamite sotto il tavolo della coalizione.
“Anche la squadra di governo è ottima, ma tutto è migliorabile.
Ci sono energie della società civile che dovremmo coinvolgere.”
Traduzione simultanea nelle orecchie dei presenti: i ministri azzurri non pesano abbastanza, Mediaset non accetterà il ruolo di socio silenzioso, e il diritto di tribuna sta diventando diritto di prelazione.
Nel retropalco, le redazioni si allertano, i titoli precompilati “Piersilvio blinda Tajani” vanno nel cestino mentale, e qualcuno scrive già “rinnovamento”, “segnale”, “svolta”.
Ma il punto di rottura arriva fuori copione, nel momento in cui la regia, convinta di essere sulla discesa, tenta un taglio morbido sul buffet.
Un cronista veterano alza la mano e chiede ciò che nessuno osa più archiviare come rumore di fondo.
“Scende in campo?
Prende lei la guida di Forza Italia?”
Una volta, la risposta sarebbe stata un no fulmineo, quasi insofferente.
Oggi no.
Piersilvio accenna un mezzo sorriso che ricorda pericolosamente quello di suo padre quando metteva un mattone con aria di carezza.
“Non oggi”, dice piano.
Le spalle di Tajani si rilassano un millimetro, ma è un sollievo con la miccia.
“Mai dire mai.
Nella vita le prospettive cambiano.
Non mi sento di escludere nulla a priori.”
Tre parole – mai dire mai – che annullano anni di smentite e riaprono i giochi come quando si riavvolge il nastro nel punto esatto in cui la storia poteva prendere un’altra strada.
Qui la regia sbaglia di nuovo i conti del rischio e prova a stringere sui calici.
Ma Piersilvio non ha finito.
“Papà è sceso in politica a 58 anni.
Io ne ho 56.”
Il resto lo fanno le ellissi.
Non aggiunge altro, eppure riempie lo Studio 20 di una cifra che suona come conto alla rovescia.
Due anni.
Due anni per allineare le stelle societarie, ridisegnare l’assetto aziendale, rafforzare il perimetro mediatico, selezionare volti, costruire una narrativa.
Due anni che portano dritto al 2027.
Non è un lapsus, è un segnalibro infilato nella scaletta del sistema politico.
Nel frattempo, succede un’altra cosa, meno rumorosa, più strutturale.
Piersilvio introduce un tema che fa sobbalzare i conservatori della coalizione: “I giovani hanno sensibilità diverse su certi diritti, parlare il loro linguaggio non significa tradire i nostri valori, ma aggiornarne la traduzione.”
È una frase che sembra innocua, ma dentro ha l’architettura di un manifesto liberal in un governo a trazione sovranista.
Gli osservatori segnano: posizionamento sul mercato, apertura sui diritti, appeal per capitale e istituzioni europee.
È il berlusconismo 2.0 in caftano manageriale.
Il segmento Q&A si chiude con scambi freddi e sorrisi di protocollo, ma il backstage ribolle.
Tajani, raccontano, chiede chiarimenti fuori onda, cerca la chiosa che rimetta la prua nella stessa direzione, ottiene cortesia, non impegni.
I registi tentano di abbassare l’audio sul “mai dire mai”, ma la clip è già stata catturata da tre smartphone e due redazioni.
La frase rimbalza su X come un proiettile tracciante.
Nei corridoi di Palazzo Chigi, le domande si affollano senza bisogno di portavoce: quanto spazio avrà ancora Forza Italia versione Tajani se la famiglia alza l’asticella e chiede “facce nuove”?
Come si governa sapendo che l’alleato potrebbe diventare competitor soft di qui a due bilanci?
Il peso specifico della parola “famiglia” in un partito che esiste grazie alle fideiussioni non è un dettaglio notarile, è la leva che muove il braccio.
Senza quella firma, lo sanno tutti, il partito il lunedì mattina non apre la serranda.
In mezz’ora si compie l’atto politico più sofisticato della stagione: la demolizione controllata della reggenza, con tutti gli onori della liturgia, accompagnata dall’apertura di un varco che porta a una leadership da costruire senza proclami, ma con strumenti.
Il “piano segreto” che molti sussurravano da mesi non è un dossier, è una sequenza.
Riassetto dell’immaginario, ricalibrazione dei messaggi, scouting di volti non stanchi, costruzione di una piattaforma pro-mercato e pro-diritti selettivi, tensione costante sulla coalizione per alzare il valore contrattuale.
Non serve svelarlo in un foglio: basta farlo vedere in un brindisi.
Il dettaglio che manda in tilt le redazioni arriva a valle, quando filtra che alcuni inviti strategici al brindisi sono partiti non dai soliti canali di partito, ma da una cerchia ristretta che incrocia affari, media e think tank in gestazione.
Niente complotti, solo organizzazione.
È il segnale che il perimetro politico si sta allargando lungo gli assi classici del berlusconismo: televisione, impresa, finanza, cultura pop, con l’aggiunta di una grammatica social che nel 1994 non esisteva e oggi decide il ritmo del consenso.
Le reazioni sono a ventaglio.
I moderati annusano la possibilità di un baricentro più confortevole rispetto alle forzature identitarie.
I sovranisti stringono i ranghi e ricordano che i numeri della maggioranza non tollerano fibrillazioni a due anni dalle urne.
Il PD legge un’occasione, ma sa che l’elettorato contendibile non è il suo.
Il Terzo Polo, disperso, teme l’effetto aspirapolvere.
Dentro Forza Italia scatta il gioco antico delle correnti con nomi nuovi.
Chi ha appuntato la frase “vecchi di mentalità” sul taccuino comincia a fare telefonate che suonano come sondaggi di disponibilità.
Chi ha letto nel “mai dire mai” un investitura implicita ridisegna le mappe delle fedeltà.
Chi non ha letto nulla fa finta che sia stato tutto un brindisi.
La verità è che la frase sui 58 anni è il perno attorno a cui girano i prossimi due inverni.
Se Piersilvio non scenderà in campo, avrà comunque deciso la forma della discesa di qualcun altro, con i criteri, i volti, la musica, i tempi.
Se scenderà, avrà fatto sapere con anticipo che non sarà per tappare un buco, ma per aprire un capitolo.
Tajani, in tutto questo, diventa l’uomo più esposto d’Italia con la minore capacità di replica.
Non perché difetti di argomenti, ma perché gli hanno sottilmente cambiato la scenografia alle sue spalle.
Può rivendicare la stabilità, ma gli risponderanno con l’innovazione.
Può esibire il governo, ma gli chiederanno il racconto.
Può dire che nulla è cambiato, ma a 56-58 nessuno fingerà di non aver capito il messaggio.
Giorgia Meloni, invece, si ritrova un nuovo orizzonte da governare.
Non è un avversario frontale, è una potenziale sponda che chiede prezzo.
Ogni decreto bancario, ogni norma pro-mercato, ogni scelta su diritti e società civile, da oggi, si misura anche con la linea che Piersilvio ha tratteggiato: un centrodestra “moderno” in cui l’ala liberal chiede oxygen, share e spazio.
Può essere stabilizzante, può essere destabilizzante.
Dipenderà da quanto il “mai dire mai” verrà usato come frusta o come metronomo.
La diretta si chiude tra applausi educati e sorrisi per i selfie.
Nei video di backstage si vede un’ultima scena che vale più di una colonna di commenti.
Piersilvio si volta verso la platea, alza il calice, e dice solo “Ai prossimi due anni”.
È un augurio, è un promemoria, è un cronometro che parte.
Quando le luci si abbassano, restano tre righe incise nella memoria collettiva della giornata.
La prima: il ringraziamento al passato può essere la formula più elegante per annunciare un futuro senza di te.
La seconda: “facce nuove” non è un claim, è una procedura, e l’azionista ha appena emesso la direttiva.
La terza: “Papà 58, io 56” è l’equivalente digitale del “mi candido” del secolo breve, privo di urlo, pieno di conseguenze.
Il resto lo farà il tempo, con la pazienza crudele che ha per le ambizioni e per i partiti.
Ma oggi, nello Studio 20, è successo qualcosa che i comunicati proveranno a ricomporre in formule stufe: la maschera del brindisi si è spaccata e dietro c’era un piano, non un brindisi.
E quando un piano esce dal cassetto “che nessuno doveva aprire”, la politica non torna più com’era mezz’ora prima, qualunque sia la versione ufficiale del domani mattina.
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