Roma ha imparato a riconoscere il peso dei silenzi.
Quando la fanfara si spegne di colpo e i plastici scompaiono dai talk, non è arrivata la quiete: è arrivata la paura.
Sul Ponte sullo Stretto, l’eco delle promesse si è dissolta in quaranta giorni di nulla televisivo, ma nei corridoi ministeriali il volume è salito fino a farsi assordante.
Riunioni fiume in orari improbabili, fogli Excel che non tornano, tecnici con l’aria di chi deve squadrate un cerchio.
Se accendete la tv, non c’è più una parola.
Se chiedete alle carte, parlano forte.

E quello che dicono è semplice e devastante: i conti non stanno in piedi, e il silenzio serve a guadagnare tempo.
Le origini di questo blackout informativo risalgono a una scossa: la delibera della Corte dei Conti che ha fermato la macchina e chiesto giustificativi sostanziali per miliardi di spesa.
Fin qui la cronaca.
Il dettaglio cruciale, rimasto in ombra, è un altro: quando i giudici contabili hanno chiesto documenti completi, si sono visti recapitare una cartella digitale smilza, lacunosa, priva dei pilastri che dovrebbero reggere un investimento pubblico di questa scala.
Non sciatteria, dicono le fonti, ma una mossa disperata.
Perché certe carte, se redatte fino in fondo, sancirebbero un’ammissione imbucabile: i presupposti economici del progetto non reggono alla luce piena.
Il cuore del problema sta in una forbice che definire anomala è un eufemismo.
A metà anni Duemila, lo stesso impianto progettuale veniva prezzato poco sopra i 4 miliardi.
Oggi, rispolverato quasi senza ripensamenti strutturali, lo stesso tracciato sale oltre i 13,5 miliardi.
Più del triplo.
L’inflazione spiega una parte, l’aumento dei materiali un’altra, ma la curva resta esorbitante.
Nella vulgata dei corridoi, quel delta è “grasso”.
Margini preventivi abnormi, cuscinetti per incertezze non modellate, rendite da spartire lungo filiere lunghe.
La matematica normativa, però, non è negoziabile: il diritto europeo sugli appalti parla chiaro, e oltre il +50% rispetto alla base si va verso la necessità di rifare gara e procedure.
Qui non siamo oltre il limite, siamo oltre la soglia di guardia di un fattore quattro.
Per questo, nel riserbo dei tavoli tecnici, si lavora a una riscrittura del perimetro.
Non per rafforzarlo, ma per disarticolarlo.
La soluzione che circola è la più antica delle alchimie contabili: spacchettare.
Spezzare l’opera madre in lotti, derivazioni, “opere connesse”, carreggiate, raccordi, stazioni, adeguamenti ferroviari e stradali, finendo per presentare un “ponte” alleggerito sulla carta, con il grosso della spesa migrato sotto altri capitoli.
Il gioco delle tre carte.
Spostare per non far vedere.
Il risultato?
Un progetto unitario sacrificato sull’altare della contabilità creativa, sostituito da una selva di microcantieri con governance differenziate, tempi divergenti, costi non più comparabili.
Un labirinto amministrativo che rende impossibile il controllo e diluisce la responsabilità.
Ma il cantiere più difficile non è quello di costruzione.
È quello della gestione.
Le proiezioni riservate – quelle interne, prudenti, non quelle ottimistiche da conferenza stampa – parlano di oneri di esercizio annuali a tre cifre: manutenzione spinta di cavi, impalcati e apparecchi di appoggio, protezioni contro la salsedine, dispositivi aerodinamici, monitoraggio sismico continuo.
Stime che arrivano in area 110–120 milioni l’anno per “non farlo cadere a pezzi”, come sintetizza un ingegnere con crudele realismo.
Le entrate?
Anche nelle ipotesi più generose, i pedaggi non supererebbero i 35–45 milioni l’anno.
Il gap diventa struttura, non incidente: oltre 70 milioni annuali da coprire stabilmente.
Una tassa occulta pluridecennale, iscritta per inerzia nelle leggi di bilancio.
È qui che la politica, stretta tra la retorica della grande opera e la disciplina di cassa, entra in modalità sopravvivenza.
Una delle idee allo studio – confermata da più fonti – è l’innalzamento aggressivo dei pedaggi: 25–30 euro per un’auto, oltre 50 per un mezzo pesante.
Numeri “difendibili” sulla carta per ridurre il buco operativo, ma insostenibili socialmente.
Il paradosso sarebbe grottesco: un ponte avveniristico semi-vuoto, mentre sotto i traghetti continuano a portare pendolari e merci a tariffe accettabili.
Una cattedrale nel deserto con manutenzione d’oro e flussi d’argento.
Intanto, la Società Stretto di Messina – liquidata e poi resuscitata – si è rimessa in moto.
Statuti riattivati, uffici riaperti, personale reclutato, consulenze riavviate.
Una macchina organizzativa che costa prima ancora di produrre mattoni.
È fisiologico?
In parte sì: un soggetto attuatore deve esistere se si vuole procedere.
Ma è il tempismo a stonare: con la verifica contabile in corso e documenti chiave mancanti, la corsa a contratti, incarichi e studi può sembrare un accanimento amministrativo.
Si alimenta il veicolo anche se il carburante normativo non è ancora in serbatoio.
Il capitolo sicurezza, poi, è quello su cui nessuno osa avventurarsi in pubblico.
Non perché manchino risposte, ma perché le domande sono diverse da vent’anni fa.
Modelli climatici aggiornati indicano regimi di vento nello Stretto più turbolenti e imprevedibili.
Eventi estremi diventano meno rari.
La progettazione originaria, figlia di un’epoca che guardava a serie storiche più miti, richiederebbe un aggiornamento profondo su aerodinamica, smorzatori, ridondanze.
Aggiornare significa riprogettare.
E riprogettare significa riallineare costi, cronoprogrammi, forniture.
Il punto non è se sia impossibile.
È se il quadro economico e il contesto di rischio consentano di farlo senza scivolare nell’azzardo morale.
Nel frattempo, la narrazione pubblica è passata dal tamburo al sussurro.
Non perché i problemi siano risolti, ma perché sono più grandi dei talk.
Il governo tace per non alimentare un incendio che non sa più spegnere con slogan.
Tace perché ha investito su quest’opera capitale politico personale, e il costo reputazionale di un passo indietro adesso sarebbe altissimo.
Tace perché ogni parola rischia di diventare prova in un contenzioso con corti e autorità di controllo.
Tace per arrivare a un decreto “salvaponte”: una norma infilata in notturna tra commi stratificati per sterilizzare i vincoli, spostare verifiche, ingessare contenziosi.
Il copione classico del fatto compiuto: aprire cantieri, scavare, impegnare risorse e territorio per rendere politicamente inaccettabile l’ipotesi di fermarsi a metà.

È una strategia.
Funziona spesso.
Ma vincola generazioni a scelte prese in emergenza.
C’è chi dirà che tutto questo è catastrofismo interessato.
Che le grandi opere necessitano di coraggio e che i numeri si raddrizzano “a regime”.
Che i costi sono investimenti e che il Sud ha diritto a infrastrutture simboliche.
C’è verità anche qui.
Ma il coraggio senza contabilità diventa temerarietà.
Gli investimenti senza piani di esercizio diventano rendite.
Le opere simboliche senza sostenibilità diventano monoliti.
Il punto non è “se” fare il ponte.
È “come” e “a quali condizioni”.
Con quali verifiche tecniche indipendenti sui modelli climatici e sismici.
Con quali clausole di revisione prezzi e riparti di rischio tra pubblico e privato.
Con quali tetti di perdita operativa e fondi di compensazione espliciti in bilancio, non nascosti.
Con quale governance trasparente e auditabile, capace di prevenire il tritacarne dei micro-lotti.
Con quale verità comunicata agli elettori su pedaggi, tempi, alternative.
Perché alternative esistono sempre, e vanno misurate con lo stesso rigore.
Potenziamento integrato di porti e traghetti con nuove navi a basse emissioni, logistica avanzata, cadenzamenti ferroviari ottimizzati, sistemi Ro-Ro/Ro-La per abbattere tempi e costi di attraversamento.
Un pacchetto così costa meno, è modulare, scalabile, e non inchioda la finanza pubblica a un vincolo monolitico.
Può essere meno iconico, ma è spesso più efficace nel servire il territorio.
Il nodo politico si stringe su un’ultima contraddizione: annunciare “crescita, rigore e taglio degli sprechi” e, nello stesso tempo, blindare un’infrastruttura che sul piano dell’esercizio mostra un disavanzo strutturale.
Si può decidere di accettarlo, per ragioni strategiche, di coesione, di visione.

Ma va detto.
Va messo in legge, in chiaro, con cifre e coperture riconoscibili, con tempi e stop-loss.
Altrimenti è contabilità creativa.
Ed è qui che il silenzio diventa sospetto.
Perché quando i numeri sono buoni, la politica parla.
Quando non lo sono, cerca il buio.
Di fronte a questo scenario, la battaglia decisiva non è ideologica, ma procedurale.
Trasparenza totale sui documenti forniti alla Corte dei Conti.
Pubblicazione dei piani economico-finanziari nelle versioni “riservate” e “pubbliche”, con nota metodologica e sensitività su costi e ricavi.
Parere tecnico di un panel indipendente su vento, sismica, manutenzione, obsolescenza degli standard.
Cronoprogramma reale con milestone verificabili, penali e clausole di recesso.
E – soprattutto – un confronto parlamentare vero, non rituale, con voto su coperture, pedaggi e oneri di esercizio.
Questo non “ferma lo sviluppo”.
Lo rende adulto.
Lo rende difendibile.
E, se servirà, lo rende rinegoziabile prima di trasformare un ponte in un impegno a perdere per trent’anni.
Il resto è rumore di fondo.
C’è un tempo per i plastici e un tempo per le righe di bilancio.
Quello del Ponte sullo Stretto è arrivato al secondo tempo.
Se davvero deve essere il simbolo del rilancio, cominci a rilanciare anche la cultura della verità contabile.
Perché un’opera pubblica è un patto: tra politica e cittadini, tra presente e futuro.
E i patti si onorano con i numeri, non con il silenzio.
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