Le luci dello studio quella sera non erano un contorno, erano l’anima feroce della scena.
Un bianco chirurgico, freddo e lucidissimo, rimbalzava sul pavimento di resina nera e risaliva come un’onda, rivelando ogni granello di polvere che danzava nell’aria condizionata e ogni dettaglio non previsto di una serata nata per essere varietà e diventata resa dei conti.
C’era elettricità nell’aria, un formicolio sottile che arricciava i peli delle braccia del pubblico stipato sulle gradinate, come un’arena romana in attesa del leone, o meglio del gladiatore, pronto a entrare e ribaltare il copione.
Al centro, appoggiato con una nonchalance studiata al bancone di cristallo e metallo, il conduttore dominava lo spazio con la sua giacca di velluto blu notte che catturava le luci come una marea e con una camicia bianca aperta quel tanto che basta per dire “sono uno di voi, ma con più stile”.
Quello sguardo fisso, quella luce rossa “siamo in onda” che pulsava come un cuore tachicardico, tamburellavano con le dita il ritmo di una diretta che non avrebbe concesso appigli.
Di fronte, su uno sgabello di design scomodo, Elly Schlein teneva le mani giunte in grembo, le nocche bianche per la tensione, mentre gli occhi saettavano tra il pubblico e la camera, in cerca di un volto amico che non c’era.

Il conduttore iniziò con una voce calda e graffiante che riempiva lo studio senza urlare, un timbro che arrivava dritto allo stomaco e faceva scricchiolare le certezze.
“Abbiamo passato mesi a sentire la solita musica,” disse, e il pubblico rispose con un mormorio che diventò consenso, poi risata, poi boato, quando la satira scalfì i mantra dell’isolamento, della carestia, del ritorno al passato evocati come fossero sempre dietro l’angolo.
Schlein provò a intervenire, “Non banalizziamo, il pericolo è reale,” disse, ma il conduttore le tagliò la frase come si fa con un disco rotto, invadendo lo spazio vitale con una domanda che sapeva di prova del nove.
“Di che pianeta stai parlando,” incalzò, enumerando immagini di protocolli internazionali, di spread tranquilli, di abbracci europei, di normalità istituzionale che strideva con la narrazione allarmista.
L’applauso fu violento, spontaneo, quasi liberatorio, e Schlein irrigidì la schiena come se avesse ingoiato un manico di scopa, cercando una reazione che non fosse solo una difesa.
“È una legittimazione di facciata,” provò, e la voce le tremò una frazione di secondo, sufficiente a far sentire il rumore di fondo di una platea che non le apparteneva.
La risata del conduttore esplose, non cortese ma di pancia, e il ritmo cambiò, diventando un giro di danza che spostava l’asse dalla teoria all’esperienza.
“La censura in RAI,” ripeté, allargando le braccia verso la camera come a mostrare l’evidenza stessa della contraddizione, “se siamo qui, se ogni sera qualcuno la chiama fascista in prima serata, che strana dittatura è questa.”
Non era solo linguaggio, era scenografia emotiva, e lo studio rispose con quell’ovazione che accende la parte più istintiva di chi guarda.
Schlein rimase aggrappata ai braccioli dello sgabello, “Noi parliamo di complessità, dei diritti, degli ultimi,” disse, tentando di riportare il confronto sui binari di una politica che aspira alla mediazione, ma il conduttore la incalzò con una ferocia calma che tagliava i margini.
“Se non sapete neanche dove abitano gli ultimi,” sibilò piano, “se confondete un operaio vero con un’installazione artistica, se fate i convegni sulla fluidità in biblioteche del centro mentre lei va a Caivano e ci mette la faccia, la gente questo lo sente.”
La luce, impietosa, iniziò a rivelare tutto: la goccia di sudore che brillava sulla fronte, la rigidità delle spalle, il tremore impercettibile di una mano che afferrava un bicchiere per guadagnare tempo.
“Facciamo i conti,” annunciò il conduttore, e in un gesto teatrale svelò una vecchia lavagna di ardesia e una calcolatrice gigante, trasformando la politica in una matematica di gag.
Scrisse cifre a caso, unendo risultati elettorali disparati con ironia graffiante, ridicolizzando la somma creativa di un campo largo che non riusciva a farsi orchestra.
“Avete il 140% dei consensi,” concluse, e il pubblico scoppiò, mentre Schlein serrava le labbra in una linea sottile che non riusciva a trattenere l’onda di sarcasmo.
“State banalizzando,” tentò, ma suonava pedante, scollegata dalla corrente emotiva della stanza, come se una lingua avesse perso l’intonazione proprio quando serviva cantare.
Il conduttore tornò al bancone, abbandonando la lavagna come un giocattolo ormai superfluo, e divenne serio, più basso di voce, più vicino al punto.
“La differenza,” disse, “è che quando c’è da votare, loro votano, e voi litigate sullo spartito mentre la nave affonda.”
La metafora del Titanic divenne immagine, e il velluto blu notte del conduttore sembrò un sipario che cadeva su una sinistra incapace di decidere se voler suonare jazz, classica o trap mentre l’acqua saliva.
“Questo non è giornalismo, è un comizio,” esplose Schlein, puntando un dito che tremava di rabbia, ma il conduttore la fissò con un’aria di incredulità, come se avesse sentito la Terra proclamarsi piatta.
“Il patriarcato,” disse lei, “la Meloni nemica delle donne,” e in quella frase c’era il cuore di un argomento serio, ma la scena lo consumava come fosse un cliché esaurito.
Il conduttore si rivolse alla camera, “La prima donna presidente del Consiglio, fatta da sola, con notti di manifesti e sputi presi e muri scalati,” disse, “ha rotto il tetto di cristallo che celebrate nei convegni, e voi le negate la patente di donna perché non la pensa come voi.”
Schlein, immobile, sembrò svuotarsi di colore, mentre la narrazione si riorganizzava attorno a un’icona che la sfida femminista aveva finito per contestare invece di includere.
Poi il colpo più crudele, non politico ma quasi personale, “Se il patriarcato avesse un volto,” sussurrò il conduttore, “sarebbe quello dei capocorrente maschi che ti hanno messo lì come statuina di cera per rifarsi la facciata, sperando che tu cada.”
Era uno sparo verbale che trasformava l’argomento in specchio, e Schlein rimase a guardare un punto del pavimento nero, come se volesse scomparire nella riflessione dei riflettori.
Lo studio cambiò tono, scivolando dal teatro civile al cabaret, e il conduttore, come un predatore sazio, decise di giocare ancora un istante con i resti della preda.
Estrasse un foglio dalla giacca, una lettera caricaturale, “Caro Babbo Natale,” lesse con finta commozione, “quest’anno sono stata bravissima, ho detto ‘resilienza’ cinquecento volte,” e il pubblico oscillò tra il riso e il disagio, consapevole, forse, della crudeltà sottile che accompagnava la scena.
Schlein si alzò, “Basta,” gridò, ma il conduttore la riportò giù con autorità, “Fammi finire,” disse, e proseguì con un elenco di richieste ironiche: cognomi adatti agli operai, vinili rimasterizzati, maglioni che fingono di essere di mercatino, e soprattutto il “campo largo del Subbuteo” dove si vince sempre se si gioca da soli.
Il foglio cadde ai piedi di Schlein come una sentenza, e la musica triste sfumò in un trombone stonato che sanciva la farsa al culmine.
“Questo è quello che siete diventati,” disse il conduttore, con una pietà che faceva più male della rabbia, “una tristezza che spegne la musica alle feste, che corregge i congiuntivi mentre muore il gatto, che controlla la differenziata sulla torta di compleanno.”

Lo studio rimase in un silenzio religioso, e la camera entrò nello sguardo di Schlein, fisso nel vuoto, non sconfitta da un argomento, ma da uno specchio deformante e terribilmente nitido.
“La gente non vota la tristezza,” concluse il conduttore, “vuole ritmo, vuole speranza, e che vi piaccia o no, Meloni ha ritmo, è rock, mentre voi siete la musichetta dell’attesa del call center, quella che tiene in linea e poi cade la linea.”
Le luci tornarono bianche, esplosive, e la chiusura fu una danza, una base anni Ottanta, piume e paillettes che inghiottivano il senso della serata in una festa che rendeva irrilevante tutto il resto.
Il conduttore saltò sul bancone, urlando “Viva l’Italia, viva Giorgia, viva noi,” e dietro, sfocata, quasi dimenticata dalla regia, la leader del PD rimase seduta, fantasma in un film a colori, paradosso vivo di un’opposizione che quella notte non era riuscita a raccontarsi.
La schermata andò a nero, ma negli occhi degli spettatori restò solo un sorriso vincente e una sagoma grigia, come a dire che il gioco era stato capito da chi l’aveva scritto, e perso da chi ci era entrato sperando di cambiarlo.
Il giorno dopo, i resoconti parlarono di eccessi, di spettacolo, di televisione che fagocita la politica, ma sotto la patina rimase la domanda che aveva incendiato lo studio: chi decide cosa è dicibile, chi assegna le patenti di legittimità, chi porta il ritmo e chi chiede silenzio.
In quel varco, tra la farsa e la verità, la democrazia ha dato un sussulto, ricordando che il giudizio pubblico non si scrive solo con le parole, ma con le scene che le parole abitano.
La serata non ha stabilito chi abbia “ragione”, ha mostrato chi è in grado di tenere il tempo quando la musica cambia.
E nel fragile equilibrio tra teatro e potere, la politica ha scoperto, ancora una volta, che il pubblico riconosce chi sa respirare sotto le luci e chi, invece, sotto quelle luci, finisce per non respirare più.
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