All’inizio sembra il solito scontro televisivo, un duello di cartapesta confezionato per la prima serata, poi qualcosa si incrina sotto la penombra bluastra che i registi amano usare per dare gravità ai confronti storici.

Non ci sono urla da talk show quotidiano, né tintinnii di campanelle parlamentari, solo il ronzio dell’aria condizionata e il fruscio delle carte sul tavolo di cristallo, come un metronomo invisibile che scandisce l’attesa.

Al centro della scena, due figure agli antipodi per biografia e per quella alchimia caratteriale che spinge lo spettatore a schierarsi prima ancora che parta il primo round.

Da una parte Romano Prodi, due volte presidente del Consiglio, ex presidente della Commissione europea, il professore per antonomasia, seduto affondato nella poltrona con placidità emiliana, viso rotondo incorniciato dai capelli bianchi, occhi socchiusi dietro lenti spesse, mani giunte sul grembo in posa quasi ecclesiastica.

Sorride di un sorriso obliquo e indecifrabile, un patrono che osserva i ragazzi e pensa che non sappiano quello che fanno, senza appunti davanti, solo memoria e aura di autorità, l’unico adulto in una stanza di bambini rumorosi.

Romano Prodi si scaglia contro Giorgia Meloni: "Ero lì che facevo il  minestrone e sento questa roba qui"

Dall’altra parte Giorgia Meloni, la presidente del Consiglio, seduta sulla punta della sedia, ogni muscolo in tensione come una centometrista sui blocchi, tagliere scuro rigoroso, occhi-fari accesi che scansionano ogni micro-movimento dell’avversario, una pila ordinata di dossier dalle etichette colorate che spunta come una barricata ordinata.

Se Prodi emana la lentezza rassicurante delle istituzioni di Bruxelles, Meloni vibra dell’energia nervosa di chi deve dimostrare ogni giorno di meritare il posto che occupa.

Il conduttore, consapevole di avere tra le mani un momento televisivo irripetibile, cede la parola al professore con deferenza, chiedendo un bilancio sull’operato del governo dopo quasi due anni.

Prodi sospira lungo e teatrale, avvicina il microfono e parte con voce impastata e didattica, quella che ha risuonato per anni a Bologna.

Dice di non essere lì per fare polemica, ma per osservare i fatti, e i fatti, secondo lui, raccontano una storia triste.

Guarda Meloni, parla di buona volontà e impegno fisico, ma avverte che governare non è atletica, è scacchi, e teme che il governo stia perdendo su tutti i fronti.

La pausa è studiata, lo sguardo indulgente da nonno che rimprovera una nipote per un brutto voto, poi affonda sull’economia, sull’“Italia fanalino di coda”, sulle crescite “a zero virgola”, sui salari “mangiati dall’inflazione”, sul “nulla fatto” se non “mance elettorali” temporanee.

Evoca il reddito di cittadinanza tolto, i consumi in calo per paura, la sfiducia, e infila il capitolo Europa con l’aria di chi conosce i corridoi e ne possiede le mappe.

Parla di un’Italia isolata, di strette di mano a Orban, di flirt con la destra estrema, di Parigi e Berlino che decidono senza convocarci, di camerieri d’Europa in attesa di mance e PNRR, di ritardi, di incompetenza amministrativa, di fondi non spesi per carenza di classe dirigente.

Chiude sulla sanità, accusando “tagli feroci”, “investimenti storicamente bassi sul PIL”, spinta verso privato e assicurazioni, tradendo lo spirito della Costituzione.

Quadro severo: un Paese fermo, diseguale, isolato, malato, oltre la propaganda dei social.

Mentre Prodi parla, Meloni non interrompe, ma chi osserva vede la trasformazione fisica, le mani passare dalla penna ai dossier, la mascella irrigidirsi, la pazienza che costa.

Quando il professore tace, convinto di aver impartito la lezione definitiva, la premier prende la parola senza alzare la voce.

Ringrazia con tono basso, metallico, chirurgico.

Ringrazia perché “l’operazione di mistificazione” meritava di essere studiata nei corsi di comunicazione, perché per dieci minuti ha snocciolato “dati che non esistono” e ha descritto un Paese che esiste “solo nella sua testa”.

Apre il primo dossier con gesto secco e ribalta.

Sul “fanalino di coda” cita OXE e Commissione europea, ricorda che nel 2023 e 2024 l’Italia è cresciuta più della media, sopra Francia, sopra una Germania in recessione, quel “modello” cui ci si era consegnati per anni.

Non bonus a pioggia, dice, ma fiducia tornata, indici ai massimi, Borsa di Milano la migliore d’Europa.

“Se questo è un Paese fermo, la sua Germania cos’è, un cimitero.”

Sui salari, ammette il problema storico e lo colloca dove fa più male, “negli ultimi vent’anni”, “quando governava il PD” e i tecnici sostenuti dal professore.

Snocciola occupazione record, disoccupazione ai minimi dal 2008, chiama “mancia” il taglio del cuneo solo per chi ha pensioni d’oro, perché “100 euro” per un operaio sono la spesa di una settimana.

Differenza siderale tra cannocchiale dei macronumeri e carrello della spesa.

Prodi tenta di inserire una mano condiscendente, ma Meloni lo blocca alzando indice e tono, “i dati non si interpretano, si leggono”, e passa alla sanità.

“Tagli” è “falso”, dice, Fondo sanitario nazionale al massimo storico, oltre 134 miliardi, più soldi messi in due leggi di bilancio che in dieci anni di governi di sinistra.

Il problema vero non sono i soldi di oggi, ma i tagli lineari e il blocco del turnover “per compiacere Bruxelles”, quando il professore ci spiegava i “compiti a casa”.

Si sporge, invade lo spazio visivo e arriva all’“isolamento”.

Parla di Berlino in crisi, Macron assediato, stabilità che oggi è a Roma.

“Quando c’è da risolvere migranti, Von der Leyen viene a Roma.”

“Quando c’è da parlare con il Nord Africa chiamano me.”

Confusione tra isolamento e dignità, tra cappello in mano e schiena dritta.

Europa sì, ma “a testa alta”, difendendo interesse nazionale, cocktail esclusivi sacrificati volentieri sull’altare del rispetto.

Prodi tenta il PNRR, mormora sui ritardi.

Meloni ride secco e sciorina rate ricevute, primato europeo sugli obiettivi, rinegoziazione del piano “impossibile” fino a ieri, risorse spostate su imprese e famiglie, non su piste ciclabili nel nulla o stadi di calcio.

Accusa la sinistra di sperare nel fallimento per poter dire “ve l’avevo detto”, ma l’Europa “paga e promuove”, l’underdog che riesce dove i migliori hanno fallito.

Chiude dossier e chiude giro.

Consigli, sì, bugie agli italiani, no.

Gli italiani guardano conto in banca, fabbriche che riaprono, spread più basso di “quando c’eravate voi”, e vedono, forse per la prima volta, “qualcuno al comando” che fa i loro interessi.

Il primo round è finito, il professore ha provato a fare il professore e ha trovato una studentessa che contesta il libro di testo.

Ma Prodi ha una carta, l’analisi politica disinteressata, la trappola che Meloni aspetta.

Incassa la raffica senza replicare sui numeri, aggiusta gli occhiali, incrocia le mani, sospira lungo per spazzare la polvere della polemica, e si eleva sul piano del sentimento.

Dice che la politica è connessione con il popolo, che la destra fa la destra, ma il vero dramma è l’assenza di alternativa credibile.

Parla con morte nel cuore dell’Ulivo secco, guarda PD e 5 Stelle e vede una sinistra persa, concentrata su diritti sacrosanti ma dimentica del pane, attenta alle minoranze rumorose e lontana dalla maggioranza silenziosa.

Mercati, parrocchie, gente che chiede “chi ci difende”, e lui che non sa cosa rispondere, perché la “sinistra dei salotti e delle ZTL” ha rotto il patto sentimentale con il Paese.

Sentenza scandita: “Questa sinistra non vincerà mai e tu governerai a lungo per mancanza di avversari.”

È un tradimento storico.

Prodi si riappoggia soddisfatto, convinto di aver toccato il punto alto, di aver messo Meloni in difficoltà ammettendo che vince per demerito altrui.

Non ha visto l’assist più facile.

Meloni resta in silenzio tre secondi, sorride da felino che vede la gazzella zoppicare, gli occhi brillano di una luce divertita e crudele, e parte con voce morbida che nasconde spine.

Dice che l’analisi è vera, che la sinistra ha voltato le spalle all’Italia reale, ai lavoratori, si è chiusa nei palazzi, e che per questo gli operai e le borgate votano per lei.

Poi la lama si fa fredda e la curiosità diventa accusa.

“Chi ha insegnato alla sinistra a voltare le spalle al popolo.”

“Chi ha introdotto l’eurotassa, mettendo le mani nelle tasche degli operai.”

“Chi ha svenduto l’IRI, regalando i gioielli di famiglia.”

“Chi ha teorizzato l’obbedienza ai vincoli esterni, massacrandone il potere d’acquisto.”

La memoria è lunga, dice, e il capostipite della sinistra ZTL è proprio lì, seduto.

La terza via cui hanno guardato Letta e Renzi è nipote di quelle scelte, la falce e martello sostituita dallo spread, il tricolore messo in un cassetto e la finanza portata in salotto.

Prodi balbetta “demagogia”, rivendica l’ingresso nell’euro, salva-risparmi, chiede ringraziamenti.

Meloni lo interrompe secca, “il futuro di chi, dei banchieri”, e affonda sulla vanità storica.

Si ferma, fa un passo indietro, guarda la telecamera, poi punta Prodi come prova vivente del paradosso.

“Se lo dice Prodi, che ha una cattedra sul voltare le spalle all’Italia, chi siamo noi per smentirlo.”

L’effetto è devastante, come togliere ossigeno allo studio, la bonomia emiliana si crepa in un istante.

Il professore scatta in avanti, mani sul tavolo, bicchieri tremano, il viso si accende di rosso, la voce perde placidità e diventa stridula.

Accusa banalizzazione, propaganda su passaggi epocali, avverte che senza euro e Ulivo saremmo Argentina, che ha salvato i risparmi, che Meloni dovrebbe ringraziare.

Il nonno della Repubblica sparisce, resta un politico ferito che agita l’indice e cerca disperatamente di recuperare autorevolezza che scivola via come sabbia.

L’eurotassa “restituita”, l’IRI “carrozzone”, l’autarchia evocata, ma il corpo del discorso non regge più il ritmo.

Meloni non si muove di un millimetro, braccia conserte, si gode lo sgretolamento emotivo, sa che chi perde la calma ha già perso la ragione.

Quando Prodi si ferma per prendere fiato, sferra l’attacco finale.

Non una stoccata, ma un bombardamento a tappeto.

Parla del cambio a 1936,27, del potere d’acquisto dimezzato “in una notte”, della sovranità monetaria “svenduta”, di una moneta troppo forte per noi e troppo debole per la Germania, di manette metaforiche buttate nel Reno.

Affonda sull’IRI, sui gioielli pubblici consegnati ai privati “a prezzi di saldo”, sulla strategia industriale smontata, sui monopoli che alzano tariffe e tagliano investimenti.

Evita l’Ulivo solo per ricordare che Prodi è l’unico presidente caduto due volte per mano dei propri alleati, Bertinotti e Mastella, governo tenuto insieme dalla voglia di potere e crollato al primo soffio.

Stabilità evocata come seduta spiritica, governi come gatti in tangenziale.

Il colpo di grazia fa afflosciare la figura dello statista e la restituisce come leader debole, ostaggio di correnti.

La chiusura è solenne, voce che si abbassa e diventa sentenza.

La sinistra ha voltato le spalle all’Italia, vero, ma è successo quando si è deciso che l’Italia doveva essere una colonia economica del Nord Europa, quando si è difesa la rendita e non il lavoro, quando si è barattata identità per un posto nel salotto buono.

Meloni si alza, raccoglie carte con gesti lenti e definitivi, e oppone passato e presente.

Prodi rappresenta un passato di sottomissione, svendite e litigi.

Lei rappresenta un presente faticoso, difficile, ma orgoglioso, fatto di riacquisti, difese, ascolto del popolo disprezzato.

Grafici e cattedre possono dire che non si può fare, ma l’Italia è più forte delle profezie di sventura.

Prodi mormora che il Paese “andrà a sbattere”, ultimo sasso lanciato mentre la regia apre l’inquadratura.

Meloni, guardando dritto in camera, sorride trionfante e risponde che sta solo girando il volante dalla parte opposta a dove andavano loro, e proprio per questo l’Italia “si sta salvando”.

Arrivederci professore, torni ai suoi studi, la politica vera la lasci a chi non ha paura di sporcarsi le mani per il popolo.

Le luci si abbassano sul completo grigio di Romano Prodi, livido e solo, mentre Giorgia Meloni esce a passo svelto, accompagnata dall’eco metaforica di un Paese che ha assistito non solo a un dibattito, ma alla liquidazione definitiva di un’era politica.

La trappola ha funzionato, l’autorità del professore è stata usata per firmare la sua stessa condanna, e in diretta la figura si è capovolta.

Non è più un duello di cartapesta, è una prova di forza.

Lo studio trattiene il fiato, le telecamere stringono sui volti, la percezione è limpida.

Qualcuno sta crollando.

Qualcun altro sta governando la scena.

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