Lo Studio 3, immerso nel bagliore asettico della notte romana, sembrava una bolla sospesa in cui l’aria condizionata vibrava nelle ossa più che nelle orecchie.
Sul set de Il Punto Critico, il talk del giovedì che promette sangue e serve tensione lucidissima, tutto era studiato per creare distanza, persino il tavolo triangolare in metallo spazzolato, concepito per un duello ottocentesco con telecamere robotiche a fissarne ogni tremito.
Da un lato Elly Schlein, postura rigida, giacca color ruggine dal taglio maschile, cartellina fitta di appunti evidenziati come un prontuario d’assedio, sguardo saettante fra conduttore e lente, come se il contraddittorio fosse un ostacolo da bypassare più che un avversario da affrontare.
Dall’altro, Tommaso Cerno, l’ex senatore che ha indossato e dismesso la politica, accavallato e sardonico, occhiali dalla montatura spessa usati come arma e scudo, un felino in attesa del passo falso, apparentemente annoiato, sostanzialmente pronto.

In mezzo, Marco Valenti, conduttore di risse verbali che suda freddo prima della sigla, sapendo che quella sera non ci sarebbero stati prigionieri, solo colpi e contromosse in campo aperto.
La domanda iniziale è una lama pulita, l’Italia corre o l’Italia affonda, e Schlein parte in quarta con un tono che fonde urgenza da assemblea universitaria e gravità istituzionale imparata di corsa, annunciando favole di palazzo e incubi di paese, sanità al collasso, medici allo stremo, liste d’attesa infinite, fondi tagliati per armi e condoni.
Poi l’aria cambia registro e si fa morale, diritti delle donne, 194 sotto pressione, famiglie arcobaleno colpite da decreti che rendono orfani per atto amministrativo, restaurazione identitaria incollata a una politica estera imbarazzata fra Orban e precarietà.
Cerno ascolta e si toglie gli occhiali lentamente, pulendo le lenti come a sgonfiare retorica e pathos con un gesto, e quando parla abbassa la voce, costringendo la platea a tendere l’orecchio, trasformando la scena in una prova di realtà più che in un duello di etichette.
Il suo affondo è chirurgico, la macchina del tempo non porta al futuro ma alle assemblee degli anni Novanta, dove bastava gridare fascismo per avere ragione, e la contro-narrazione diventa ruvida: Meloni piace a chi si è sentito abbandonato, partite IVA demonizzate, operai dimenticati, cittadini che chiedono sicurezza mentre le stazioni diventano frontiere sgranate.
Schlein replica sugli indicatori sociali, occupazione precaria, salari fermi, salario minimo affossato, la contabilità del dolore che spinge contro la quiete dello spread, ma Cerno non concede tregua, sposta l’asse dalla percezione alla struttura e nega l’apocalisse come precondizione di un’identità politica.
Si entra nella parte scivolosa della cultura, TeleMeloni e Rai occupata come grido rituale, e Cerno alza per la prima volta il volume, ricordando la lunga egemonia della sinistra nei gangli dell’industria culturale, la selezione come appartenenza, il pluralismo a specchio, e l’ipocrisia di gridare al cambio delle nomine come fosse un golpe.
Il colpo successivo è sui diritti sociali, la sinistra che ha rincorso minoranze rumorose e smarrito la casa dei lavoratori, mentre la destra, cinica o concreta, si è seduta nelle periferie a parlare di bollette e sicurezza, riempiendo il vuoto lasciato dalla morale di superficie.
La tensione sale quando si arriva ai migranti, Minniti evocato come storia che ritorna, la strategia europea come fantasma di un dover essere, Lampedusa come teatro di realtà, e la durezza onesta contro il buonismo ipocrita diventa formula che divide la sala e il Paese in diretta.
Il clima entra nel campo di battaglia, alluvioni e fondi PNRR come prova d’accusa, e Cerno ribatte con la retorica del pragmatismo, fabbriche che non si chiudono domani mattina per fare contenta Greta, pannelli cinesi come paradosso di una ecologia che scarica costi su altri.
La pausa pubblicitaria arriva come un anestetico breve, ma al rientro Valenti pone la domanda chiave, l’alternativa, e Schlein raddrizza la schiena e pronuncia la parola che spezza la scena, competenza, come se bastasse a rimettere ordine dove la realtà ha già aperto crepe.
La visione, dice, non è cinismo ma progetto, Europa, scienza, progresso, la dignità come fiume che scorre sotto l’argine dell’illiberalismo, e le piazze che si riempiono, a prova che il Paese è pronto a cambiare frequenza.
Cerno posa gli occhiali sul tavolo, un clac che suona come l’innesco di un congegno, e sussurra ora basta, non alto, ma vibrante, e ribalta la parola competenza come mito interno, governi senza urne, gangli occupati, debito pubblico come scultura di sistema, spread sotto quello di Macron e relazioni internazionali che misurano peso e ruolo oltre i monologhi.
La sequenza che segue è spietata, Sumaroro come simbolo di marketing mancato, il PD dei centri storici e dei dirigenti, non più dei capannoni alle cinque del mattino, operai in rotta verso chi parla di tasse e sicurezza, armocromia come estetica che morde la credibilità più di qualunque insulto.
Poi la frattura perfetta, la prima donna premier, Garbatella come genealogia senza quote, tetto di cristallo rotto con il pragmatismo, e la sinistra che impazzisce perché la vittoria femminile non corrisponde alla loro dispensa ideologica.
La replica di Schlein si fa tagliente, non basta essere donna per essere femminista, e cita tagli, centri antiviolenza, regine delle api e alveari schiacciati, ma Cerno solleva l’obiezione più tossica, la patente di donna concessa o ritirata a seconda dell’ortodossia, totalitarismo morale travestito da democrazia.
A questo punto il pubblico è due platee, una boato, una fischio, e Valenti tenta di riordinare il tempo, ma la frase cade come una pietra tombale, tu al governo, ma non farmi ridere, e per tre secondi lo Studio 3 diventa un vuoto cosmico dove perfino le ventole dei riflettori fischiano.
Schlein scatta in piedi, la cartellina quasi rovesciata, la voce incrinata e poi rotta, bullismo, sofferenza, un milione di persone che chiede rappresentanza, la democrazia sepolta sotto il cinismo di chi ride davanti al dolore.
Cerno resta seduto, rimette gli occhiali con lentezza che appare più offensiva delle urla, e risponde ridendo non delle persone ma della presunzione, manuale delle giovani marmotte del progressismo, Palazzo Chigi come luogo dove la complessità non si governa con slogan e dirette.
La voce si alza di nuovo, l’uragano come metafora inevitabile, l’alternativa che non regge e diventa garanzia per la destra, l’opposizione come bene comune che si sbriciola quando non è seria, e la standing ovation trattenuta si mischia alle invettive come due piogge che non si fondono mai.

Valenti entra quasi fisicamente fra le inquadrature, la sigla di chiusura si alza come una cortina sonora, le luci sfumano dal bianco clinico al blu notte, e l’ultima immagine consegna ai salotti di casa due Italie inconciliabili, fogli colorati raccolti con mani tremanti da un lato, un bicchiere d’acqua finito con calma feroce dall’altro.
Poi il nero, e nel nero una voce catturata da un microfono ancora acceso, tornatene nella ZTL, Ellie, fuori fa freddo per te, un epitaffio televisivo che spinge il duello oltre lo studio e dentro le mappe invisibili di chi abita il Paese reale.
Ma la vera scossa non è il gelo, è il cambio di gerarchia narrativa, perché la logica ha fatto irruzione nel format della battuta, la contabilità concreta ha soppiantato l’etica performativa, e la platea ha visto, senza filtri, quanto sia fragile un racconto quando non regge alla prova dei numeri e delle biografie.
Non è la sconfitta di una persona, è il test di un campo politico, e il risultato è una fotografia spietata: quando l’opposizione vive di indignazione senza progetto, la maggioranza non ha bisogno di vincere, le basta assistere.
La televisione, che accarezza le certezze e rifugge le crepe, ha visto aprirsi una crepa in diretta, e ora il gioco si sposta fuori dallo studio, dove la competenza dovrà farsi colonna e non slogan, proposta e non cartellina, tempo lungo e non clip virali.
Perché se la scena resterà così, con il Paese diviso e una leadership che pensa di meritare il governo per titoli morali più che per risultati e piani, allora il gelo di quella notte non sarà un effetto di scena, sarà l’aria che si respira nella politica italiana per molto tempo ancora.
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