La scena si è consumata in pochi secondi, ma l’impatto è stato devastante: un intellettuale che da anni smonta le finzioni della politica italiana, Massimo Cacciari, rompe il diaframma del politicamente corretto e pronuncia una sentenza che suona come uno schiaffo alla storia recente del centrosinistra.

«È una truffa», dice del Campo Largo, e lo studio si immobilizza.

Non è una provocazione da talk show, è un’autopsia del metodo.

Non siamo davanti alla solita polemica tra correnti, siamo davanti a un’accusa che tocca la dignità della politica: sacrificare identità, storia e coerenza sull’altare della matematica elettorale.

Il campolargo non decolla, anzi. E l'astensione aumenta

Cacciari non parla di errori occasionali, di scivoloni tattici, di incidenti di percorso.

Parla di scelta deliberata.

La strategia del “tutti dentro” — di Renzi quando c’è, di Calenda finché resta, di Fratoianni se conviene, dei 5 Stelle comunque — si rivela per quello che è: un bunker, non un progetto.

Un dispositivo di sopravvivenza che respira sempre meno.

Il centro nevralgico della sua critica è spietato e chiarissimo: quando l’unico obiettivo di una coalizione diventa impedire all’avversario di vincere, la politica smette di essere proposta e diventa pura barricata.

È in quel momento che le parole “valori”, “visione”, “programma” si svuotano e restano gusci tenuti in piedi dalla retorica.

Il campo largo, dice Cacciari, non è un’idea di Paese: è una zattera per attraversare la tempesta senza sapere dove approdare.

La Campania, in questa radiografia, diventa laboratorio clinico.

Lì il centrosinistra cerca di incastrare pezzi che non combaciano: il potere territoriale di Vincenzo De Luca, sceriffo ruvido e concreto, e l’abbraccio con il Movimento 5 Stelle di Roberto Fico e Giuseppe Conte, fino a ieri nemici giurati del PD.

La domanda che rimbalza tra i corridoi è semplice e letale: chi guida davvero questa macchina?

Il paradosso che Cacciari mette a fuoco è clamoroso: per fermare la destra, il PD nazionale guidato da Elly Schlein sembra disposto a sacrificare i suoi stessi uomini sul territorio, o a costringerli in alleanze innaturali con chi li ha delegittimati per anni.

Non è strategia, è cannibalismo.

In Campania non si decide solo una giunta: si decide se la sinistra italiana esiste ancora come entità pensante o se è diventata un comitato elettorale permanente.

In questo quadro, le parole d’ordine che rimbalzano tra conferenze stampa e interviste si rivelano, sotto la lente del filosofo, per ciò che sono: mantras che nascondono la resa del pensiero.

“Fermare la destra”, “siamo l’alternativa”, “la persona giusta”: non sono tasselli di un progetto, sono l’ammissione che il progetto non c’è.

Si costruisce un nemico gigante per coprire il vuoto interno.

Si chiede un voto “contro”, non “per”.

E la politica, quando diventa solo negazione dell’altro, smette di costruire e comincia a logorare.

Cacciari affonda il bisturi anche nella leadership.

La definizione che usa per Elly Schlein è un ossimoro devastante: “la più brava del nulla”.

Non un insulto, una diagnosi tecnica.

Comunicazione brillante, immagine pulita, armocromia perfetta per clip e social, ma dietro la facciata — dice — non si vede un tracciato, non si vede il traguardo.

Un pilota in tuta perfetta seduto su una Formula 1 ferma ai box, mentre i meccanici aspettano ordini che non arrivano.

Schlein parla benissimo, ma non mostra cosa vuole fare quando bisogna scegliere.

Naviga a vista per non scontentare le correnti interne e per non irritare l’alleato pentastellato.

La conseguenza è la paralisi del merito.

E qui si consuma l’eresia intellettuale che fa più rumore: Cacciari finisce per riconoscere a Giuseppe Conte una struttura strategica più definita.

Non ne santifica il passato, ma vede in lui una capacità machiavellica di posizionamento: cannibalizzare il PD da sinistra erodendo il suo elettorato, mentre pubblicamente lo abbraccia nel campo largo.

Sa aspettare, sa tessere, sa imporre temi che il PD fatica a possedere.

La domanda che sorge, a questo punto, è di quelle che fanno male: com’è possibile che l’erede di una tradizione come quella del PCI e della DC si ritrovi a inseguire tattiche di sopravvivenza, mentre un alleato nato contro i “partiti” detta l’agenda politica e morale della coalizione?

È incompetenza o è calcolo cinico?

Una classe dirigente che preferisce perdere l’anima pur di restare a galla?

L’analisi non si ferma all’astratto, entra nel fango vivo delle scelte.

Per il termovalorizzatore a Roma, per l’invio di armi in Ucraina, per il Jobs Act, per l’energia, per la giustizia: dove il campo largo dovrebbe essere progetto, diventa trattativa.

Dove dovrebbe essere coerenza, diventa manuale di veti incrociati.

E tutto questo ha una ricaduta che non si vede nei comunicati, ma si sente nella vita quotidiana.

Salari fermi da trent’anni.

Liste d’attesa che si allungano negli ospedali.

PNRR che rischia di impantanarsi tra procedure e faide.

Diritti civili agitati come bandiere e mai portati a terra in leggi chiare.

Se la coalizione è solo tecnica, chi paga il prezzo politico?

La risposta è: i cittadini.

Pagano l’assenza di direzione.

Pagano la gestione condominiale degli interessi contrastanti.

Pagano il tempo perso in geometrie di potere, mentre la loro vita chiede decisioni.

Cacciari chiama questo meccanismo con il suo nome: truffa del senso.

Non nel codice penale, ma nel patto democratico.

Si chiede fiducia senza offrire una visione.

Si promette unità senza decidere cosa significa davvero governare insieme.

E quando il potere diventa fine a sé stesso, scollegato da qualsiasi perché, la politica muore.

La conseguenza più grave non è una sconfitta alle urne, è la disillusione.

È la nausea dell’elettore che scopre che l’unione è solo numerica.

Che dietro le promesse non c’è una direzione comune.

È la rassegnazione che alimenta l’astensione.

È l’indifferenza cinica di chi dice “sono tutti uguali”.

Su questo crinale, l’allarme di Cacciari non è uno sfogo da salotto, è una sirena.

Un partito che esiste solo “contro” qualcuno è un parassita politico.

Vive finché vive il suo nemico.

È destinato a implodere quando quel nemico si normalizza, come sta accadendo con Giorgia Meloni accolta nelle cancellerie internazionali.

L’era che si apre è quella della pura amministrazione del consenso, tramite algoritmi e alleanze forzate.

La progettualità visionaria si ritira.

La strategia si appiattisce in tattica.

E in questo vuoto, chi occupa lo spazio non è chi ha ragione, ma chi ha microfoni.

Qui nasce la domanda più scomoda, quella che Cacciari lascia sospesa ma che la coscienza civica deve raccogliere: preferiamo una comoda bugia che forse vince le elezioni ma produce governi paralizzati, o una scomoda verità che rischia di perderle oggi per costruire qualcosa di solido domani?

La verità costa.

Chiede di rinunciare al ricatto del “male minore”.

Chiede di scegliere il “bene maggiore”, anche quando è più difficile comunicarlo.

Questo non è un invito a spaccare, è un invito a pensare.

A riscrivere il rapporto tra politica e società in termini di responsabilità operativa.

Perché i nodi — salari, sanità, scuola, infrastrutture, transizione energetica, giustizia, Europa — non si sciolgono con i format.

Si sciolgono con decisioni.

E le decisioni hanno bisogno di una gerarchia di fini, non di un algoritmo di alleanze.

La scena, quella che ha paralizzato lo studio, ha rivelato anche un’altra verità che la cronaca spesso ignora: nei momenti in cui un intellettuale colpisce la retorica, il sistema mediatico tende a ricomporre, a ridurre, a “contestualizzare”.

Ma qui la contestualizzazione non regge, perché non si tratta di un fatto isolato.

Si tratta di anni di rinvii, di formule elastiche che promettono tutto e consegnano poco, di leadership che preferiscono la postura al rischio.

Schlein tenta una risposta, ma le parole non arrivano.

Non perché manchi l’abilità, ma perché, quando il merito non è stato sedimentato, ogni replica suona come un eco.

Il panico non è la corsa, è l’immobilità.

È l’istante in cui ti accorgi che “contro la destra” non basta più, perché il Paese chiede “per cosa”.

E “per cosa” non si improvvisa.

Serve una mappa.

Serve una promessa misurabile.

Serve il coraggio di perdere consensi oggi per non perdere la faccia domani.

La Campania continuerà a essere il laboratorio di questa verità: se il centrosinistra pensa di governare con il cacciavite delle tattiche, scoprirà che senza progetto la macchina si ferma.

Se pensa di battere la destra con alleanze elastico-ideologiche, scoprirà che prima o poi qualcuno chiederà il conto: su lavoro, su salute, su sicurezza, su europeismo concreto.

Cacciari, con la sua brutalità lucida, ha messo il dito nella ferita.

Non ha offerto scorciatoie.

Ha chiesto un salto.

E i salti, in politica, si fanno con principi e numeri, non con cornici e slogan.

Chi oggi si sente ferito dalle sue parole, domani potrebbe ringraziare per la scossa.

Perché solo una verità che fa male costringe a cambiare.

E solo un cambiamento che costa qualcosa vale la pena di essere chiamato politica.

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