C’è un momento, nelle capitali europee, in cui la narrazione supera il protocollo e si trasforma in segnale politico.
Quel momento è arrivato a Roma, sotto le mura di Castel Sant’Angelo, tra bandiere e luci di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia.
La frase che ha acceso la miccia non è stata sussurrata, ma scritta in chiaro: “Oggi la politica più formidabile d’Europa”.
A firmarla su X è Kemi Badenoch, leader dei Conservatori britannici, figura emergente del fronte tory che parla a mercati, imprese e sovranità.
La destinataria, Giorgia Meloni, non ha dovuto rispondere con enfasi.

Le ha bastato restare al centro della scena, mentre gli applausi aggiungevano un contesto e gli alleati costruivano una cornice.
Il punto, in realtà, non è solo la lode di una leader straniera.
È ciò che questa lode sottintende: un riposizionamento nei corridoi di Bruxelles, un allineamento tra parti del conservatorismo europeo e l’Italia su dossier chiave.
Dossier che vanno dalla transizione energetica alla competitività industriale, dalla gestione dei flussi migratori alla riforma delle regole fiscali.
Ignazio La Russa, Presidente del Senato, ha spinto sull’acceleratore emotivo e simbolico.
Descrivendo la premier come una forza instancabile, ha disegnato l’immagine di una guida che, pur con agenda carica, regge la pressione e centralizza le scelte.
Il messaggio interno è semplice e funzionale.
Meloni non è solo “resiliente” rispetto alle profezie di fragilità del governo: è capace di stabilità, anche quando lo scenario europeo chiede compromessi difficili.
Parallelamente, l’Istat ha consegnato al dibattito numeri che parlano con voce doppia.
La disoccupazione ufficiale scende al 6,1%, un dato headline che farebbe sorridere qualsiasi esecutivo.
Ma lo stesso pacchetto statistico segnala un aumento dell’inattività al 33,3% e un calo trimestrale degli occupati di 45.000 unità.
Le grandezze del mercato del lavoro vanno lette insieme, mai da sole.
Disoccupato è chi non ha lavoro e lo cerca.
Inattivo è chi non lavora e non cerca lavoro.
Attivo è l’insieme di chi lavora e di chi cerca lavoro.
Quando la disoccupazione cala e l’inattività sale, si accende una spia gialla.
Significa che la fotografia può migliorare per effetto di uscite dal mercato, non necessariamente per aumento di opportunità.
In questo quadro, il tasso di posti vacanti all’1,8% segnala un doppio problema.
Da un lato competenze tecniche carenti, dall’altro condizioni e salari reali che non attraggono in settori faticosi o meno pagati.
L’Italia registra un tasso di occupazione al 62,5%, discreto ma ancora sotto i migliori standard europei.
Soprattutto se si guardano le linee di frattura storiche: partecipazione femminile e giovanile.
Questi elementi numerici non contraddicono la narrativa di leadership, ma ne dettano la prova d’esame.
Per capire perché la definizione “migliore politica d’Europa” ha fatto rumore, occorre isolare i criteri impliciti che l’hanno resa credibile.
Il primo è la stabilità politica.
In un continente attraversato da frammentazione e governi a geometria variabile, la tenuta dell’esecutivo italiano diventa asset negoziale.
Il secondo criterio è la collocazione internazionale.
Linea atlantica salda, capacità di convergenza nei consessi europei, margini di manovra sui dossier caldi.
Il terzo è la comunicazione su temi divisivi.
La gestione di migrazioni, energia e sicurezza richiede un mix di fermezza, pragmatismo e concessioni misurate.
Meloni sta posizionando l’Italia come player che porta problemi e soluzioni sul tavolo, non solo rivendicazioni.
A Bruxelles, gli effetti si vedono nei tavoli.
Sull’energia, l’Italia chiede un approccio realistico a costi e tempi della transizione, per proteggere manifattura e famiglie.
Sul bilancio europeo e le regole fiscali, spinge per non irrigidire il ciclo con norme pro-cicliche, puntando a margini per investimenti strategici.
Sulle migrazioni, lavora per esternalizzare quote di gestione con patti ai confini e Paesi terzi, scegliendo la leva diplomatica e quella di sicurezza.
Le reazioni sono prevedibili per geografia politica.
I Paesi cosiddetti “frugali” alzano la guardia, temendo flessibilità che si traduca in spesa improduttiva.
Il Sud Europa può convergere su investimenti, ma la competizione per attrarre supply chain rimane feroce.
Commissione e Consiglio europeo considerano l’Italia un interlocutore necessario nelle sintesi finali.
Non più marginale, ma co-autrice dei compromessi.
La narrazione, tuttavia, vive solo se si aggancia a risultati misurabili.
Ed è qui che entra la seconda metà del quadro.
Le metriche da osservare nei prossimi 6–18 mesi sono chiare.
Qualità dell’occupazione: quota di contratti stabili, salari reali in rapporto alla produttività.
Partecipazione al lavoro di donne e giovani: politiche di conciliazione, formazione tecnica, incentivi mirati.
PNRR: milestone rispettate, capacità di spesa non solo quantitativa ma di qualità, impatto su infrastrutture e capitale umano.
Industria: investimenti in tecnologie green e sicurezza delle forniture, con focus su energia, componentistica critica e logistica.
Inclusione territoriale: riduzione dei divari Nord/Sud nell’accesso a lavoro, servizi e infrastrutture.
I dati dell’Istat, inseriti in questa griglia, diventano bussola anziché titolo isolato.
Il calo dei contratti a termine (–51.000) può essere interpretato come normalizzazione post-picco o come segnale di raffreddamento.
La stabilità degli indeterminati è potente sul piano politico, perché garantisce percezioni di sicurezza.
L’aumento degli indipendenti (+14.000) racconta vitalità imprenditoriale, ma va letto con cura: partite IVA non sempre equivale a redditi solidi.
Sul fronte dei posti vacanti, l’1,8% è abbastanza per indicare mismatch formativo.
Servono filiere di competenze che oggi non si costruiscono in pochi mesi: saldatori specializzati, tecnici di processo, addetti alla manutenzione avanzata, operatori energia.
Senza queste competenze, gli investimenti restano sulla carta.
Il riconoscimento mediatico internazionale è quindi benzina nella tanica.
Ma senza motore industriale e sociale, la benzina non muove il veicolo.
E il motore, in Italia, significa tre parole: produttività, partecipazione, capitale.
Produttività richiede innovazione di processo e scala, non solo incentivi.
Partecipazione richiede servizi – asili, trasporti, sanità territoriale – che permettano alle persone di lavorare.
Capitale significa attrarre investimenti privati in filiere strategiche con regole stabili, tempi autorizzativi rapidi, certezza del diritto.
Su questi terreni si gioca il passaggio dalla narrativa alla realtà.
La politica “più formidabile d’Europa” deve mostrare formidabilità anche nel registrare risultati e nel correggere rotta quando i numeri lo chiedono.
Gli indicatori macro non aspettano la propaganda.
E il pubblico, soprattutto quello che vive la vita reale fuori dai palazzi, sa riconoscere il valore quando si traduce in paghe migliori e opportunità concrete.
C’è poi il tema dell’immagine internazionale.
Essere lodati da Badenoch sposta anche l’asse culturale della percezione.
Meloni diventa la figura che unisce l’idea di sovranità nazionale con la capacità di trattare nei consessi sovranazionali.
Non sovranismo isolato, ma sovranità negoziata.
Questa combinazione è esattamente ciò che gli investitori cercano quando misurano rischio paese.
Un governo capace di decidere, ma anche di comporre.
Il capitale politico che si costruisce con gli endorsement deve essere speso in riforme ad alto impatto.
Politiche attive del lavoro, semplificazione regolatoria, giustizia civile più rapida per gli investimenti, e un piano serio di competenze tecniche.
Se il mismatch resta, i posti vacanti continueranno a segnalare una economia che cresce a fatica.
Sul versante fiscale europeo, la partita è delicata ma non impossibile.
Ottenere regole meno pro-cicliche è sensato se accompagnato da impegni credibili su spesa di qualità.
Tradotto: flessibilità in cambio di investimenti verificabili e riforme che migliorano la produttività.
È su questo scambio che si vedrà la leadership.
Bruxelles non teme chi alza la voce.
Teme – e rispetta – chi porta dossier corredati di numeri e timeline reali.
La stessa logica vale per le migrazioni.
Le soluzioni non si trovano nel solo linguaggio emergenziale.
Servono patti, investimenti nei Paesi di origine, controllo delle frontiere e integrazione efficace per chi entra regolarmente.
Ogni segmento richiede risorse, governance e indicatori di successo.
Senza indicatori, la percezione crolla.
Tornando alla scena italiana, Atreju ha fatto da teatro di investitura comunicativa.
Ma l’eco si misura nell’Eurogruppo, nel Consiglio, nelle riunioni con commissari e capi di governo.
Lì, l’Italia può capitalizzare la narrativa se si presenta con cartelle ben costruite.
Il paradosso è che lodi esterne sono più credibili quando la casa è in ordine.
E la casa si mette in ordine con numeri.
Sui salari reali, l’inflazione ha eroso potere d’acquisto.
La risposta non può essere solo bonus temporanei.

Serve crescita della produttività, sgravio sul lavoro e un patto tra imprese e Stato che premi chi investe in tecnologia e formazione.
Sul fronte giovani, l’emigrazione qualificata è un segnale da ribaltare.
Incentivi a rientrare e percorsi rapidi per entrare nelle filiere industriali sono un investimento che paga.
Per l’universo femminile, la partecipazione si alza con servizi di prossimità e regole lavoro più flessibili.
Non è ideologia, è aritmetica: senza nuovi ingressi, il lavoro italiano invecchia e si restringe.
Infine, il PNRR è la cartina di tornasole.
Non sarà giudicato dai comunicati, ma dalle opere aperte, dai cantieri finiti, dagli impatti misurati.
Ogni milestone rispettata è un credito politico.
Ogni ritardo è una debito reputazionale.
In conclusione, la “classifica” che celebra Meloni come la migliore politica d’Europa è un titolo che vibra.
Ha valore perché ha riverberi diplomatici e perché rompe gerarchie percepite.
Ma il suo consolidamento passa per la prova dei fatti.
Se nei prossimi trimestri i grafici di produttività, partecipazione e investimenti inizieranno a puntare nella direzione giusta, il riconoscimento non resterà un’onda mediatica.
Diventerà un ancoraggio politico.
E gli equilibri a Bruxelles non saranno solo “sconvolti” per un giorno.
Saranno riscritti, con l’Italia seduta al tavolo dei decisori, non nella platea degli osservatori.
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