Lo studio è un’arena circolare, disegnata per non concedere vie di fuga, un perimetro di luce che stringe i protagonisti come in un rito antico.
Al centro, un tavolo di vetro scuro, stasera più simile a una lastra di ghiaccio sottile pronta a incrinarsi sotto il peso di un confronto che l’Italia attende da mesi.
Non è il solito dibattito tra politici, è uno scontro di mondi, una collisione antropologica.
Da una parte Tommaso Montanari, rettore, storico dell’arte, voce tonante della sinistra radicale, reduce da piazze piene e parole roventi.
Indossa la sua sciarpa bianca, simbolo pacifista, annodata con cura sopra un cappotto che non si è tolto nemmeno in studio, come se volesse dichiarare estraneità al luogo.

Sembra di passaggio, pronto a tornare alla sua gente, a un coro che ne amplifica la vibrazione morale.
Dall’altra Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, senza fogli davanti, solo una penna che non usa e un bicchiere d’acqua.
Completo blu notte, sobrio e istituzionale, postura rilassata, quasi insolente nella tranquillità.
Il conduttore lo sa: ogni parola fuori posto può incendiare la scena.
Dà la parola a Montanari, invitandolo a ripetere in faccia alla premier le accuse pronunciate in piazza.
Montanari non si fa pregare, raddrizza gli occhiali, pianta lo sguardo sulla premier, l’aria di un inquisitore che ha già scritto la sentenza.
La voce è un impasto di disprezzo accademico e furore profetico.
“Il problema non è politico, è prepolitico, è culturale,” scandisce, come incidesse un’epigrafe nel marmo.
Meloni, secondo lui, vede la società come una caserma, i cittadini come sudditi, la nazione come un feticcio ottocentesco che ha bisogno di un nemico per esistere.
“Avete bisogno del migrante come nemico, del povero come nemico, e adesso della guerra,” attacca, citando i riservisti e il fantasma di un paese trascinato al fronte.
“Voi preparate psicologicamente il conflitto, odiate la Costituzione, siete incompatibili con la democrazia repubblicana,” conclude, alzando il dito come un maestro severo.
La sala si spacca: applausi timidi e mormorii indignati si mescolano, la regia inquadra la premier.
Meloni non ha battuto ciglio, ha ascoltato con una pazienza olimpica, sollevando appena un sopracciglio come davanti a una nota stonata.
Il conduttore riapre il giro: “Presidente, accuse gravissime: Costituzione, guerra, autoritarismo.”
La premier si sporge in avanti, appoggia i gomiti, aggancia gli occhi di Montanari e non molla più la presa.
“Ha finito la lezione, professore?
Torniamo alla realtà,” esordisce con voce bassa, quasi dolce, ma affilata.
Quando Montanari prova a interrompere, Meloni scatta, alza il volume e impone il silenzio con un ringhio controllato.
“Ha insultato me e milioni di italiani che mi hanno votato.
Adesso ascolti.
La ricreazione è finita.”
Il ritmo cambia d’improvviso, la sala trattiene il fiato.
Meloni sposta l’asse del confronto: “Essere un soldato non è bramare la morte, è sacrificio, disciplina, causa più grande dell’ego.”
Rivendica le origini popolari, la fatica, la spesa al discount, contrapposte ai velluti accademici.
Il colpo è personale, chirurgico, diretto al nervo scoperto della superiorità morale.
Montanari sbuffa, prova a reagire, ma la premier è già oltre: “Siete voi a evocare la guerra, voi a spaventare le mamme con la leva che non esiste.
La vera violenza è verbale, è chiamare fascista chiunque non vi somigli.”
L’attacco ribalta i pesi, trasforma l’accusa di autoritarismo in specchio dello snobismo altrui.
Applausi lunghi come una tregua liberatoria coprono le sillabe spezzate di una replica mancata.
Montanari si ricompone, si aggrappa alle idee come a un corrimano in mezzo alla piena.
La sua forza è l’astrazione, il principio, la Storia con la S maiuscola, non la vita minuta delle periferie.
Riporta il duello sul terreno dei diritti, evoca l’accordo con l’Albania come “deportazione,” lascia cadere la parola “lager” come un’ogiva semantica.
Il conduttore sbianca, vorrebbe frenare, ma la diga è già rotta.
La sala si fa gelida, la parola pesa come una bestemmia.
Meloni non esplode, non urla, versa acqua, posa il bicchiere con lentezza maniacale, poi guarda l’avversario con un gelo polare.
“Ha banalizzato l’Olocausto in prima serata,” dice piano, e il silenzio si fa assoluto.
“Centri gestiti dalla Croce Rossa paragonati ai campi di sterminio.
Si vergogni.”
La premier si alza, mani sul tavolo, fisicità che sovrasta, autorevolezza che punge.
“È l’ideologia che vi ha consumato.
A forza di gridare al lupo, avete svuotato le parole.”
Montanari tenta una via giuridica, parla di detenzione amministrativa, ma Meloni incalza, secca: “Principi astratti contro realtà da governare.”
Rivendica gli accordi con Tunisia, Egitto, Albania, i numeri degli sbarchi, la riduzione delle morti.
Definisce “razzismo snob” trattare l’Albania come terra di barbarie.
Il pubblico applaude di nuovo, più forte, come se la chiarezza avesse il suono pieno della percussione.
Montanari scuote la testa, respinge i numeri come gabbie contabili, rilancia la dimensione etica.
Cita la pace, l’articolo 11, accusa la premier di costruire un’economia di guerra, di inchinarsi alla NATO, a Trump, al complesso militare-industriale.
Qui scatta la trappola logica.
Meloni sospira, sorride senza compiacimento.
“Vi riempite la bocca di pace, ma cos’è la pace?
La resa?
Lasciare che Putin divori l’Ucraina?
Chiamatela col suo nome: vigliaccheria.”
Montanari si drizza, oppone il dialogo, le conferenze, la diplomazia.
“Senza deterrenza non c’è dialogo,” martella la premier, pugno leggero sul vetro, latino in punta di lingua: “Si vis pacem, para bellum.”
“Armi non per attaccare, ma per impedire che ci attacchino.”
Il frame si sposta ancora.
La premier guarda in camera, salta l’interlocutore, parla al paese.
“Il mondo è pericoloso.
Fondamentalismo, autocrazie, instabilità.
Un’Italia disarmata è un invito.”
Promette alleanze con le democrazie, fermezza, rispetto.
Sottolinea: “Finché ci sono io, l’Italia non si inginocchia.”
Montanari la accusa di muscolarismo novecentesco, di cieca modernizzazione bellica mentre il pianeta brucia.
Apre la cartella “clima”, invoca la civiltà, la decrescita come sobrietà.
La premier sorride di taglio, ironia che punge: “Il vostro Occidente cattivo, la vostra decrescita felice che è povertà infelice per gli altri.”
Poi il contrappasso: “Voi siete i vecchi, fermi al 1917.
Io difendo l’interesse nazionale nel 2025.”
Il conduttore guarda il timer, il blocco si chiude, ma il confronto è al culmine.
Una domanda-lama per Montanari: “Disprezza gli italiani?”
Lui inspira, si aggrappa all’ultima diga identitaria.
“Amo l’Italia della Resistenza, della cultura, dell’accoglienza,” dice con voce che vibra.
“Disprezzo l’Italia che state costruendo: egoismo legittimato, razzismo strisciante, sottomissione al peggior sovranismo.”
Evoca l’Europa tradita, la dignità ceduta, dipinge la premier come “esecutrice testamentaria” della democrazia.
È un affresco apocalittico, un ultimo, vasto murale morale.
Meloni non ride più, lascia cadere il sarcasmo come un mantello inutile.
Resta la solennità dell’affondo finale.
Si gira verso il pubblico di casa, poi rientra sull’avversario.
“Queste sono parole di chi ha perso il contatto con la realtà e demonizza l’avversario,” scandisce.
Poi il cambio di passo, il colpo che unisce genere e potere.
“Se una donna di destra è forte, per voi è per forza al guinzaglio di un uomo.
Il vostro maschilismo interiorizzato parla per voi.”
Si alza di nuovo, occupa lo spazio, pronuncia la formula della sua legittimazione.
“Io non ho padroni: non a Bruxelles, non a Washington, non nelle redazioni.
Rispondo a una sola sovranità: quella del popolo italiano.”
Declina il realismo degli interessi: “Se vado d’accordo con qualcuno, è perché serve all’Italia.
Se litigo, è perché serve all’Italia.”
La distanza con l’intellettuale diventa teorema, non insulto.
“Voi odiate la patria quando non coincide con le vostre utopie.
Io governo l’Italia reale.”
Il conduttore alza la mano, la sigla entra come una lama orchestrale.
Montanari china lo sguardo sui fogli, la sciarpa scivolata di lato, i capelli scomposti, la frustrazione lucida nell’iride.
La premier resta immobile, fissa la camera, mascella ferma, l’aria di chi ha già messo in agenda la prossima battaglia.
Le luci calano, il cono segue Meloni verso l’uscita, lasciando l’intellettuale in penombra.
La scena finale somiglia a un quadro: la leader che avanza, l’avversario seduto, il pubblico che respira a scatti.
Che cosa è accaduto davvero, al di là della drammaturgia?

Montanari ha portato in studio la potenza simbolica della sua piazza, ma l’ha caricata di aggettivi assoluti, di parole totemiche come “lager” e “deportazione.”
Ha puntato sulla superiorità morale, confidando che il lessico del Novecento bastasse a certificare il presente.
Meloni ha scelto la sottrazione, poi l’affondo, il realismo come arma retorica, il senso comune come cornice.
Ha ribaltato i segni: la guerra come deterrenza, i confini come Stato di diritto, l’Europa come arena negoziale e non altare.
La forza dell’una è stata la teatralità del quotidiano, la debolezza dell’altro l’astrazione impietosa.
Il pubblico ha percepito una asimmetria tra il racconto dell’indignazione e la grammatica del governo.
Ciò non significa che le domande sollevate da Montanari scompaiano.
Restano lì, come spilli sul cuscino: diritti, asilo, proporzioni, limiti, civiltà.
Ma stasera hanno perso il microfono, schiacciate dalla prova muscolare di una leadership che conosce bene i tempi televisivi.
Nel montaggio naturale della serata, la premier ha vinto per ritmo, per controllo, per capacità di trasformare l’iperbole in boomerang.
Ogni volta che l’avversario ha alzato l’asticella morale, lei ha abbassato il baricentro pratico.
Ogni volta che lui ha evocato fantasmi, lei ha offerto numeri, alleanze, responsabilità.
Lo schiacciamento non è stato solo verbale, è stato strutturale.
Ha riguardato il terreno di gioco, l’ingegneria della conversazione, l’uso dello sguardo come pinza e del silenzio come sentenza.
Chi produce politica di parola dovrebbe prendere appunti.
Le parole assolute bruciano chi le usa se il contesto non le regge.
La forza di un’accusa dipende dalla sua misura, non dalla sua ferocia.
E quando in studio entra la parola “Storia” con la S maiuscola, bisogna saperle portare i documenti, non solo i titoli.
Alla fine, il racconto che resta è quello di un’arena senza uscite, di un tavolo-ghiaccio che non si è spezzato sotto i passi della premier, ma sotto il peso eccessivo delle iperboli.
Montanari ha portato il catechismo del dissenso, Meloni la liturgia del comando.
La televisione ha scelto, per una sera, la seconda.
La politica, quella vera, continuerà altrove, tra dossier e negoziati, dove non bastano applausi né epiteti.
Ma il fotogramma di stasera resterà come ammonimento: chi usa il fuoco del linguaggio deve conoscere il punto di combustione della realtà.
Superato quello, il rogo si sposta di lato e incendia il copione che teneva in mano.
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