C’è un momento, in ogni grande narrazione politica, in cui l’immagine inizia a incrinarsi e sotto la vernice affiorano i numeri, le carte, gli atti.
Il piano Albania voluto dal governo Meloni sembra essere arrivato a quel punto di verità, dove la promessa di una svolta epocale incontra la prova dei fatti e la contabilità reale.
Lo sguardo di due critici di peso, Marco Travaglio e Massimo Cacciari, ha reso il contrasto ancora più netto, smontando la retorica della fermezza con considerazioni che toccano legalità, efficacia e sostenibilità economica.
Nella versione ufficiale, l’operazione appare semplice e potente.
Le navi militari italiane intercettano in mare i migranti, non attraccano nei porti nazionali, ma li trasferiscono in Albania, dove due centri, a Shëngjin e Gjadër, gestiti da personale italiano e con supporto locale, dovrebbero occuparsi di identificazione, trattenimento e instradamento verso rimpatrio o ricollocamento.
![]()
Il tutto con una promessa precisa: alleggerire la pressione sulle coste italiane, ridurre i tempi delle procedure e ribadire all’Europa che l’Italia è tornata a controllare i propri confini.
Eppure, basta spingersi di pochi passi oltre la scenografia per imbattersi in una serie di criticità che, messe in fila, cambiano completamente la prospettiva.
La prima riguarda i numeri.
Negli anni di governo Meloni, gli sbarchi non sono diminuiti, anzi in più fasi sono cresciuti, smentendo di fatto la narrazione del blocco navale come soluzione praticabile e incrinando l’idea di una gestione finalmente “sotto controllo”.
Se gli arrivi via mare superano con facilità quota centomila in dodici mesi, e se i centri in Albania, a regime, possono trattare poche migliaia di persone l’anno, l’impatto strutturale del piano risulta inevitabilmente marginale.
Qui si innesta l’obiezione di Travaglio, netta nella sua sintesi: inutile, inefficace, costosissimo.
Cacciari la completa sul piano teorico e istituzionale, definendo il progetto un’operazione simbolica priva di fondamento razionale, priva di un orizzonte europeo condiviso e incapace di produrre un risultato sistemico.
Il secondo fronte, forse quello che scuote maggiormente l’opinione pubblica, è quello dei costi.
Le stime più citate convergono su un ordine di grandezza che sfiora il miliardo di euro sommando infrastrutture, gestione, logistica, trasporti, sicurezza, personale, assistenza legale, adeguamenti e manutenzione.
Una cifra che pesa, soprattutto in un contesto di risorse pubbliche sotto stress, tra sanità in affanno, scuola che chiede investimenti e giustizia rallentata.
La domanda che ne discende è implacabile: perché spendere tanto per spostare geograficamente il problema, se poi la stessa architettura giuridica tende a riportare in Italia una quota rilevante dei casi?
Qui entra in gioco la terza criticità, quella normativa e procedurale.
Se una persona trasferita in Albania presenta domanda di protezione o ricorre contro un provvedimento, la giurisdizione sostanziale resta italiana.
Ciò significa riporti, scorte, documenti, udienze, costi duplicati, tempi che si allungano e una macchina burocratica che rischia di ingolfarsi.
Non si tratta, insomma, di un circuito chiuso, ma di un pendolo che va e viene, moltiplicando gli oneri invece di semplificarli.
Il quarto punto riguarda la coerenza della strategia.
Un’operazione di esternalizzazione come quella albanese ha senso solo se inserita in una riforma organica del sistema interno.
Servirebbero commissioni territoriali potenziate, procedure digitalizzate, standard uniformi per i centri, più personale formato per identificazioni e istruttorie, corridoi legali mirati, investimenti nei rimpatri volontari assistiti, una cooperazione multilaterale più solida e non intermittente.
Invece, il piano si presenta come una scorciatoia appariscente.
Spostare lo sguardo oltre Adriatico, promettere ordine e fermezza, rinviare il lavoro duro della riforma domestica.
A questo si aggiunge la dimensione europea, spesso evocata, raramente costruita.
L’Unione fatica a metabolizzare soluzioni nazionali che trasferiscono pezzi di gestione verso paesi terzi.
Non ci sono state bocciature formali, ma le perplessità sono diffuse.
Si teme un precedente di esternalizzazione che, senza garanzie robuste, può confliggere con principi e prassi europee su asilo e diritti fondamentali.
In mancanza di un disegno comune, la mossa italiana appare isolata, più utile a un racconto nazionale che a una governance condivisa.
Tutto questo riporta alla scena madre: l’immagine contro la realtà.
Il racconto è quello di uno Stato che agisce, che protegge, che decide.
La realtà, nei fatti, è quella di numeri poco influenzati dalla nuova architettura, di costi molto elevati, di un cantiere procedurale ancora da collaudare, di una macchina interna che non è stata ripensata a sufficienza.
Nell’ecosistema mediatico contemporaneo, la forza dell’immagine non va sottovalutata.
È il motivo per cui operazioni di questo tipo generano consenso, almeno nel breve periodo.
Ma proprio per questo l’analisi di Travaglio e Cacciari diventa utile, perché riporta in primo piano una domanda semplice e decisiva: il piano funziona meglio delle alternative possibili?
Se la risposta, allo stato, è no o non dimostrato, allora l’operazione scivola naturalmente nel campo della propaganda costosa.
C’è poi una questione culturale che non può essere elusa.

Quando una politica pubblica poggia soprattutto su paura e percezione, tende a durare finché regge l’illusione del controllo.
I flussi migratori, però, non si piegano alle narrazioni.
Hanno cause strutturali, economiche, geopolitiche, climatiche.
Nessun accordo bilaterale può “chiudere” un fenomeno epocale.
Può al massimo contribuire a gestirlo, se inserito in una strategia multilivello, realistica e cooperativa.
In assenza di questa cornice, il rischio è duplice.
Da un lato si eleva la promessa fino a trasformarla in totem, dall’altro si costruisce una vulnerabilità politica che si manifesta al primo scarto tra promessa e risultati.
È la fisica della delusione: più alta la retorica, più brusco l’atterraggio.
Sul piano giuridico, inoltre, restano aperti interrogativi seri.
Standard di trattenimento, accesso alla difesa, giurisdizioni, ricorsi a corti nazionali ed europee, responsabilità in caso di violazioni, catena di comando tra personale italiano e cornice normativa albanese.
Ogni anello in più aggiunto alla catena è un potenziale punto di frizione, e ogni frizione, in politiche così sensibili, si traduce in costi, ritardi e contenziosi.
Nel frattempo, dentro i confini, i nodi irrisolti restano sul tavolo.
I comuni chiedono programmazione, i centri oscillano tra saturazione e emergenzialità, le prefetture rincorrono alloggi temporanei, il terzo settore colma buchi strutturali, il personale lavora spesso in condizioni logistiche inadeguate.
È qui che un miliardo investito bene farebbe la differenza.
Più capacità amministrativa, più velocità decisionale, più qualità nell’accoglienza diffusa, più chiarezza su rimpatri e integrazione, più trasparenza nei dati.
Al contrario, investire fuori confine senza riscrivere le regole in casa rischia di generare un doppio deficit: efficienza scarsa e fiducia calante.
La fiducia, in democrazia, nasce da un rapporto semplice tra obiettivi, mezzi e risultati.
Se prometti di ridurre gli sbarchi, devi mostrare un calo misurabile.
Se prometti di accelerare le pratiche, devi pubblicare tempi mediani ridotti.
Se prometti di risparmiare, devi rendicontare risparmi reali.
È su questi indicatori che si misura una politica pubblica, non su videoclip e visite istituzionali.
Il punto sollevato dai critici, allora, non è “contro” per principio.
È un invito a rimettere al centro il metodo.
Definire target annuali su tempi d’istruttoria, su percentuali di ricollocamento, su standard minimi di accoglienza, su costi per pratica gestita, su riduzione del contenzioso.
E poi confrontare, con trasparenza, il rendimento del piano Albania con quello delle alternative interne.
Se il piano esterno rende meno, costa di più e genera più attriti, la scelta razionale è evidente.
La politica, certo, non è solo calcolo.
È anche simboli, segnali, priorità.
Ma i simboli senza sostanza si esauriscono in fretta, e quando si esauriscono lasciano in eredità sfiducia, cinismo e polarizzazione.
Un governo che ambisce a durare deve preferire la pazienza dell’organizzazione alla velocità dell’effetto speciale.
Altrimenti, l’operazione che oggi unisce la base si trasforma domani nel punto più vulnerabile dell’intera narrazione.
Il piano Albania, allo stato, sembra il paradigma di questa tensione.
Ha conquistato titoli e prime pagine, ha alimentato la retorica della fermezza, ha offerto una rappresentazione plastica di controllo.
Ma non ha ancora dimostrato di spostare l’ago della bilancia sui flussi, non ha mostrato risparmi, non ha ridotto le attese, non ha dato prova di robustezza giuridica, non ha innestato una riforma interna.
Se resterà così, sarà ricordato come un esperimento costoso con impatto minimo.

Se verrà ricondotto a tassello limitato e funzionale dentro una strategia molto più ampia — italiana ed europea — potrà trovare una ragionevolezza pratica.
Questo esito dipende da una scelta politica concreta: smettere di chiamarlo “svolta” e cominciare a trattarlo come uno strumento marginale, con rendicontazione pubblica, obiettivi realistici, protocolli chiari e una riforma domestica che cammini al doppio della velocità.
Ciò che Travaglio e Cacciari hanno fatto, in definitiva, è togliere la patina al racconto e riportarlo sui binari del controllo democratico.
Hanno ricordato che un miliardo di euro chiede risposte misurabili.
Che la paura non è un piano, e che la propaganda non paga interessi sul lungo periodo.
Alla fine, la domanda che conta è la più semplice di tutte: funziona?
Se non funziona, perché insistere?
Se funziona meno delle alternative, perché sceglierlo?
E se non sappiamo ancora misurare il suo effetto, perché chiamarlo modello?
La politica è anche scenografia, certo, ma le scenografie reggono solo se dietro il sipario c’è un palcoscenico solido.
Per ora, dietro il sipario albanese, si intravedono fondazioni fragili, costi alti e promesse che chiedono ancora la prova.
La credibilità si costruisce con i dati, non con i video.
E i dati, quando arrivano, non hanno colore: raccontano se una scelta migliora la vita delle persone o se è solo un titolo destinato a svanire al primo cambio di vento.
⚠️IMPORTANTE – RECLAMI⚠️
Se desideri che i contenuti vengano rimossi, invia un’e-mail con il motivo a:
[email protected]
Avvertenza.
I video potrebbero contenere informazioni che non devono essere considerate fatti assoluti, ma teorie, supposizioni, voci e informazioni trovate online. Questi contenuti potrebbero includere voci, pettegolezzi, esagerazioni o informazioni inaccurate. Gli spettatori sono invitati a effettuare le proprie ricerche prima di formulare un’opinione. I contenuti potrebbero essere soggettivi.
News
FURIA CROSETTO SENZA PRECEDENTI: accuse di genocidio contro lui e Giorgia Meloni, parole durissime in diretta, minacce di denunce a raffica e uno scontro istituzionale che rischia di esplodere, tra indignazione, retroscena e una verità ancora tutta da chiarire|KF
Il racconto di queste ore ha il ritmo di un thriller politico e la densità di una crisi istituzionale, con…
VITTORIO FELTRI SPIAZZA TUTTI: “SONO D’ACCORDO CON LANDINI” — IL CASO DEI CASSIERI PAM, IL TEST DEL CARRELLO E LA VERITÀ CHE NESSUNO AVEVA MAI RACCONTATO IN TV|KF
Quando in studio Vittorio Feltri ha pronunciato la frase “Per la prima volta in vita mia sono d’accordo con Landini”,…
SCANDALO IN TV: ZAN SENZA FILTRI CONTRO MELONI, MA DEL DEBBIO SMASCHERA LE SUE BUGIE E FA GELARE LO STUDIO|KF
Lo studio di Dritto e Rovescio quella sera vibrava come un filo ad alta tensione, luci e telecamere incastonate in…
Marco Rizzo attacca Schlein senza pietà in diretta: ogni risposta vuota amplifica la sua inadeguatezza, e lo studio assiste incredulo a un’umiliazione politica storica|KF
La scena si apre con un silenzio denso, quasi elettrico, lo studio sospeso tra curiosità e imbarazzo, mentre un frammento…
SCOPPIA LO SCANDALO PD: UN DOSSIER RISERVATO TRAPELA E SVELA IL VERO MOTIVO DELLA FRATTURA INTERNA Avrebbe dovuto rimanere nascosto, ma qualcuno lo ha sottratto. Un fascicolo riservato trapela dai retroscena del Partito Democratico e sconvolge tutto: accordi segreti, tensioni mai rivelate e giochi di potere che spiegano più di mille dichiarazioni ufficiali. I nomi citati scuotono l’interno del PD e generano preoccupazione tra i dirigenti|KF
Avrebbe dovuto restare chiuso in un cassetto, sepolto tra sigle e protocolli di riservatezza, ma qualcuno l’ha sottratto e fatto…
SCOSSA AD ATREJU: GIORGIA MELONI ASFALTA ELLY SCHLEIN SUL PALCO, LA REAZIONE DEL PUBBLICO SEGNA UNA SVOLTA NELLO SCONTRO POLITICO|KF
Atreju quest’anno non è stato solo un evento di partito, ma un palcoscenico che ha ridisegnato coordinate e percezioni, trasformando…
End of content
No more pages to load






