Otto partiti, dieci poltrone, zero visione comune.

Il Movimento 5 Stelle, nato per “aprire il Parlamento come una scatoletta”, oggi appare intrappolato nelle stesse logiche che giurava di combattere.

Riunioni segrete, veti incrociati, accuse sussurrate nei corridoi: il potere diventa ossessione, la coerenza una vittima collaterale.

Mentre fuori il Paese chiede risposte, dentro Montecitorio si consuma una battaglia di nervi, fatta di rinvii, tatticismi e paura di perdere spazio.

Il rinvio della Giunta è solo l’inizio.

Le crepe sono ormai voragini, e qualcuno rischia di restare sepolto sotto il peso delle proprie promesse tradite.

La scena si apre su un corridoio troppo lucido per nascondere l’imbarazzo.

Le porte delle sale riservate si chiudono e si riaprono come diaframmi di un polmone stanco.

Le facce sono tese, gli sguardi si misurano su millimetri, ogni parola cercata e poi ingoiata.

Roberto Fico, investito del ruolo di regista, prova a tenere il filo di un gomitolo che non vuole più srotolarsi.

La Giunta, promessa e annunciata, scivola di calendario in calendario.

Prima era “domani”, poi “dopo l’ultima riunione”, poi “entro la settimana”.

Ora è un avverbio senza data.

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Il campo largo mostrato in campagna elettorale come una foto di famiglia, si ricompone dentro la Camera come un mosaico rotto.

I tasselli non combaciano, gli angoli graffiano, le cornici non reggono.

Otto soggetti in cerca di dieci posti e la matematica della politica si rivela più feroce di quella dei numeri.

Il Partito Democratico avanza la sua aritmetica: tre assessorati e un pacchetto di deleghe “pesanti”.

Il Movimento 5 Stelle pretende il riconoscimento del suo primato simbolico: la Presidenza e la sanità come trofeo e zavorra.

Gli altri, tutti insieme, rivendicano dignità, peso, storia, radicamento.

Ma il conto, alla fine, è sempre lo stesso: dieci sedie e più corpi di quanti la stanza possa ospitare.

Fico si muove come un equilibrista su una fune che pende.

Chiama, ascolta, rimanda, promette.

La parola “responsabilità” si consuma, la parola “unità” si scolora, la parola “cambiamento” diventa un suono di circostanza.

Nel frattempo, tra una trattativa e l’altra, si scorge l’ombra di chi non governa più ma governa ancora.

In Campania, il nome è De Luca.

Alla Camera, i nomi sono molti, ma la logica è identica: l’ex potere non smette mai di suggerire, di pesare, di investire fedeltà.

I pacchetti di preferenze si agganciano alle richieste come vagoni su un binario.

Nessuno chiede solo una poltrona, tutti chiedono una geografia.

Nel ventre del Movimento 5 Stelle, la crepa si fa racconto.

C’è chi parla di coerenza smarrita, di battaglie contro il “sistema” che si dissolvono nel bisogno di sistemarsi.

C’è chi rivendica un’identità che non vuole sciogliersi nel grande amalgama del campo largo.

C’è chi sussurra che la Presidenza non basta se intorno manca una squadra capace di reggere l’urto dei dossier.

L’eco della promessa originaria — “apriamo tutto” — si schianta contro il muro pratico del “chi prende cosa”.

In una stanza laterale, si discute della sanità.

La delega che vale un bilancio, le scelte che decidono più della metà della vita politica di una Regione.

La sanità è la calamita che deforma ogni bussola.

Ogni partito la vuole, ogni leader la promette, ogni alleato la pretende.

La sanità è potere che si misura in liste d’attesa, in appalti, in nomine, in piani di rientro.

E quando la sanità entra nel tavolo, il tavolo non è più un tavolo: è una mappa del tesoro.

Il rinvio della Giunta alla Camera non è un dettaglio tecnico.

È il segno che la coalizione ha smarrito il suo tempo interno.

La velocità della comunicazione — video, reel, post — si infrange sulla lentezza della decisione.

Il pubblico, che ha applaudito la vittoria, ora conta i giorni senza governo.

Gli addetti ai lavori, che hanno imparato a leggere i segnali, sanno che ogni rinvio è un campanello.

Ogni rinvio significa un veto che non si spegne, una ferita che non si cicatrizza, una ambizione che non si accontenta.

Il 5 Stelle, che doveva essere il garante del “non si fa come prima”, si ritrova guardiano di un portone che apre e chiude secondo le stesse antiche regole.

La differenza — si dice — è nel metodo.

La realtà — si vede — è nella sostanza.

La Camera, intanto, osserva.

I corridoi registrano.

Le voci si appuntano come spilli su un cuscino di velluto.

C’è chi parla di “riunioni segrete” e chi di “normale dialettica”.

C’è chi denuncia “condizionamenti esterni” e chi minimizza come “normale fisiologia”.

La verità è che il campo largo ha adottato l’aritmetica della convivenza senza apprendere la grammatica della decisione.

Si discute per somma, non per progetto.

Si aggrega per necessità, non per visione.

Si rinvia per stanchezza, non per prudenza.

La fotografia della giornata è un foglio bianco con appunti a matita e righe cancellate.

La lista degli assessorati cambia di ora in ora.

I nomi entrano e escono come comparse.

La frase “stiamo chiudendo” diventa un mantra.

La chiusura, però, non arriva.

Nel frattempo, tornano a galla le storie antiche.

I figli, le mogli, i cognati, le famiglie politiche che non sono parentesi ma strutture.

La denuncia del nepotismo è sempre viva, purché riguardi altri.

Quando tocca i propri, diventa “esperienza”, “affidabilità”, “radicamento”.

È la commedia italiana del potere: ognuno si indigna a giorni alterni.

Il Movimento 5 Stelle paga un prezzo doppio.

Il primo, nella percezione: il cambio di registro appare come smentita.

Il secondo, nella pratica: la leadership deve tenere insieme chi è entrato in nome della rottura e chi è rimasto in nome dell’adattamento.

Fico, nel mezzo, tenta la cucitura.

Ma cucire senza tela è difficile.

La tela — il progetto — si è persa quando si è scelta la somma come filosofia.

Senza progetto, il potere è solo una lista di sedie.

La Camera non è solo scenografia.

È anche specchio.

Nel riflesso, si vede un Paese che chiede legge di bilancio, piani per la sanità, trasporti che arrivano, ambiente che respira, lavoro che cresce.

Invece, la scena offre un elenco di deleghe da dividere, un rizoma di veti, un rosario di rinvii.

Il rischio non è solo la figuraccia politica.

È la paralisi amministrativa.

E la paralisi è quella sottile malattia che rende il potere impopolare e l’opposizione credibile.

In controluce, si intravede il paradosso.

Il campo largo è così largo da non passare per la porta della decisione.

Il 5 Stelle è così pieno di parole da bucare la pelle della pratica.

La Giunta è così rinviata da non avere più un calendario.

C’è chi dice “un’altra riunione e chiudiamo”.

C’è chi dice “senza un arbitro esterno non si decide”.

C’è chi propone “un patto di ferro” e chi minaccia “un passo indietro”.

Il teatro è al secondo atto, ma il sipario non si muove.

Il pubblico si stanca, ma resta.

Perché vuole capire se la promessa di “nuovo corso” può ancora salvarsi dentro l’officina delle poltrone.

Ci sono momenti in cui la politica deve trovare la spina dorsale.

Non nelle frasi, ma nelle scelte.

Non nelle foto, ma nelle firme.

Non nei comunicati, ma negli atti.

Il rinvio della Giunta è il segnale che manca l’osso.

Si cammina con muscoli di propaganda e tendini di tattica.

Ma senza osso, il corpo cade.

Il giorno dopo, la cronaca ripete la litania.

“Si avvicina la chiusura”, “manca poco”, “serve responsabilità”.

L’Italia, che ha imparato da anni ad ascoltare questa musica, sa che il ritornello non porta finale.

Il finale si scrive solo quando qualcuno decide e gli altri accettano.

Il Movimento 5 Stelle può ancora scegliere di essere sé stesso?

Può ancora entrare in una stanza e dire “si fa così” sapendo che qualche alleato se ne andrà?

Può reggere l’urto di perdere un pezzo per salvare il progetto?

Sono domande che non si scrivono nelle chat, si scrivono negli atti.

La Camera aspetta la Giunta.

Il Paese aspetta il governo.

Gli elettori aspettano il cambiamento.

La politica, se vuole evitare che l’attesa diventi sfiducia, deve interrompere la liturgia dei rinvii.

Perché non c’è nulla di più umiliante di un potere che parla di futuro e non riesce a sedersi al tavolo del presente.

E alla fine, la frase più vera resta la più semplice.

Otto partiti, dieci poltrone, zero visione comune.

Fintanto che il conto resterà questo, ogni Giunta sarà un numero che non torna, ogni promessa un debito insoluto, ogni campo largo una stanza troppo stretta.

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