Sembrava una sera come tante, con i ruoli cuciti addosso agli ospiti, i botta e risposta preparati, l’ironia pronta a smussare gli spigoli e a riportare tutto nel recinto della conversazione educata.

Ma bastano pochi secondi perché il ritmo si spezzi, come un metronomo che si inceppa sul colpo più delicato, e l’aria si faccia densa, quasi immobile.

Nello studio di DiMartedì, il politichese scivola addosso al pubblico come una vecchia abitudine, finché una frase muta la temperatura emotiva della stanza.

È Roberto Vannacci a piegare la scena con un movimento laterale, non l’urlo frontale, non la provocazione di superficie, ma una puntura precisa nel tessuto dell’autocompiacimento.

Non fa la mossa che tutti si aspettano, non abbocca al fioretto delle etichette, non sale sul binario della rissa, ma scardina l’assetto del salotto nel punto in cui fa più male.

Il confronto tra Vannacci e Calenda

Calenda, abituato a guidare il traffico dei talk con l’arma del sarcasmo e la sicurezza dell’argomentazione lucida, avanza con il passo di chi crede di conoscere il copione a memoria.

L’eleganza del tono, il riferimento storico, la cornice del “campo largo” dei valori repubblicani.

Tutto è al suo posto, finché non lo è più.

“Lei parla di etichette, io di realtà.”

Nel momento in cui Vannacci abbandona l’arena semantica per entrare nella carne viva del paese, la coreografia salta.

Non è il cosa, ma il come.

Il registro cambia, l’acciaio si vede.

Non moralismo, non politicismo, ma l’elenco essenziale di ciò che per molti pesa davvero: sicurezza, identità, quotidianità, fine mese.

Il paradosso dello studio televisivo è tutto lì: il luogo in cui il linguaggio si leviga a forza di presunta competenza, trova la sua crepa quando la parola si fa ruvida.

Il sorriso di Calenda, sino a un istante prima un’armatura, perde smalto.

Resta un mezzo sguardo, una frazione di esitazione.

Nella televisione in diretta, un secondo di vuoto vale più di cento frasi.

Il conduttore lo percepisce, prova a ricucire il ritmo, ma la tessitura non tiene più come prima.

Gli ospiti incrociano gli occhi, mappano l’inerzia, calcolano se conviene intervenire o attendere.

Il pubblico smette di essere platea e diventa giuria non convocata.

Il clima cambia pelle.

Il tentativo di ricondurre il confronto alla genealogia delle etichette – fascismo, pericolo, banalizzazione della storia – trova un ostacolo imprevisto: il rifiuto di accettare il quadro emotivo imposto dall’alto.

La replica del generale non sale di volume, non cerca la rissa che aiuta il montaggio del giorno dopo.

Resta fredda, chirurgica.

E proprio per questo incide.

È facile giudicare dalle poltrone imbottite, più difficile ascoltare chi non si sente rappresentato.

La frase atterra come un corpo pesante su un tavolo di vetro.

Non perché sia geniale, ma perché inchioda una distanza.

La televisione vive di distanza negata.

Qui, per un istante, la distanza viene mostrata come un reperto.

Calenda prova a recuperare il terreno con la grammatica che conosce: “propaganda pericolosa”.

Il cartellino giallo del dibattito civile, l’appello all’ordine, la richiesta di riportare in asse l’argomentazione.

Ma lo scarto è già avvenuto.

Il salotto non comanda più la scena, la insegue.

Il conduttore interviene, richiama ai toni, all’equilibrio, al rispetto dei tempi.

È il mestiere.

Ma gli strumenti regolano l’inquadratura, non il cuore del frame.

Che ormai è un altro: due Italie incastrate nello stesso studio, due semantiche che non si parlano.

Da una parte la lingua delle élite che amano definirsi competenti, colte, responsabili, ancorate alla mappa dell’Europa, alle metriche dei mercati, alla bussola delle cancellerie.

Dall’altra una lingua tagliata corta, che porta in scena bisogni, paure, rancore persino, ma legata a una percezione diffusa: “nessuno ci ascolta”.

Si può obiettare a Vannacci tutto, e molto gli è stato obiettato, ma non gli si può negare l’intuizione del varco comunicativo.

Il punto non è convincere chi è già convinto, ma spostare il perno del discorso.

E quella sera il perno si sposta.

Scena dopo scena, il set si trasforma in un laboratorio di dinamiche politiche.

Il sarcasmo – benzina nobile del ceto televisivo – perde aderenza sull’asfalto ruvido dei vissuti.

L’ironia, da arma di raffinata delegittimazione, diventa per una platea stanca un esercizio di stile percepito come insulto.

E quando l’ironia smette di funzionare, il pilota automatico della retorica si spegne.

Resta il silenzio.

Che non è mai vuoto.

Il silenzio pesa.

Domande non pronunciate si sommano sulla scena.

Perché il conduttore esita?

Perché gli ospiti si guardano?

Perché l’inerzia non si spezza con un’altra risata?

È in quello scarto che si intravede la crepa: il sistema non controlla più del tutto la messa in scena del proprio racconto.

A margine, scorrono i fotogrammi di una politica adulta e di una politica adolescente.

Quella adulta sa che l’avversario non si cancella con un aggettivo, si mischia con i fatti e la coerenza.

Quella adolescente confonde la clip virale con il risultato, la battuta riuscita con la realtà, il consenso del proprio pubblico con il Paese.

Quella sera, nel suo piccolo, il pubblico ha votato col respiro.

Ha scelto di restare in ascolto quando il copione chiedeva il cambio di scena.

L’analisi “frame per frame” racconta anche altro: la postura conta.

Calenda avanza, sferza, definisce.

Vannacci arretra un mezzo passo, poi ruota il campo e mette l’altro scoperto.

Questo non significa superiore capacità politica, significa tattica efficace.

In tv, dove lo sguardo cerca coerenze più che dottrine, la tattica fa la differenza.

Qualcuno dirà che è populismo, altri che è realtà.

Il punto è che la televisione, quando non riesce a imporre il tone of voice, ricade nell’unico terreno che non tollera maquillage: la percezione.

E la percezione di quel minuto è chiara.

Una presunta competenza che parla un dialetto minoritario.

Una rabbia che, piaccia o no, traduce un dizionario comune.

Il dibattito scivola allora da “chi ha ragione” a “chi intercetta il nervo scoperto”.

Non è un declassamento della politica, è un promemoria del suo fondamento.

Se le élite non trovano il ponte con il vissuto, viene costruito qualcun altro.

A fine puntata, resta il sospetto che la regia abbia provato a rimettere il dentifricio nel tubetto.

Troppo tardi.

Il silenzio finale – quello in cui nessuno osa più l’ultima battuta – racconta che il salotto ha perso il monopolio della mappa.

Non è un apocalisse, è una lezione.

Tre righe per archiviarla sul serio.

Primo: l’arguzia è utile, ma senza empatia scivola nel paternalismo.

Secondo: le etichette bruciano in fretta quando l’interlocutore rifiuta il campo semantico e sposta il gioco sui bisogni.

Terzo: la conduzione più efficace non è quella che alza il volume, ma quella che sa lasciare sedimentare, anche quando conviene all’audience un colpo di gong.

Ognuno vedrà un vincitore diverso, a seconda della propria grammatica politica.

Ma oltre i tifo, la fotografia è nitida: Vannacci ha trovato il punto di leva, Calenda ha esitato un istante di troppo, e il set ha sentito il vuoto.

Quel vuoto, in politica, è sempre più eloquente di qualsiasi slogan.

E non si colma con un tweet ben scritto.

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