Lo studio di Dritto e Rovescio quella sera vibrava come un filo ad alta tensione, luci e telecamere incastonate in un silenzio pronto a esplodere, mentre la platea, spaccata in due, attendeva la scintilla che avrebbe rotto l’equilibrio.

Paolo Del Debbio avanzava con calma misurata verso il centro, postura ferma e sguardo di chi sa che non assisterà a un confronto qualunque, ma a un corpo a corpo senza paracadute.

Di fronte, Alessandro Zan regolava la giacca con gesti rapidi, il viso contratto, l’aria di un pugile che sente l’adrenalina mordere prima del gong.

Scanditi i tempi, Zan parte come una detonazione: accusa il governo Meloni di tradire l’Europa, di smantellare decenni di costruzione politica, di isolare l’Italia come un paese ribelle e irresponsabile.

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La voce è alta, tagliente, le mani fendono l’aria, l’indignazione pretende ascolto e il pubblico si spacca tra applausi e fischi, trasformando il rumore in carburante per l’attacco.

L’affondo su Salvini è frontale: parole irresponsabili, umiliazione del Paese, una destra che corrode fiducia e istituzioni.

Poi Zan urla, e proprio lì Del Debbio decide di intervenire: non alza la voce, si sporge appena, abbassa la temperatura, affila il tono.

“Onorevole Zan, lei usa la parola vergogna con facilità, ma la vergogna non è l’indignazione urlata: è ridurre la politica a una sequenza di grida.”

La frase cade come piombo, lo studio si blocca, Zan tenta di replicare, Del Debbio alza un dito e il tempo si ferma.

“Parlare di Europa senza un fatto concreto, senza una prova dell’isolamento dell’Italia, è lanciare coriandoli sperando che qualcuno ci creda. Il rumore non è un argomento, la rabbia non è una proposta.”

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L’applauso è netto, quasi liberatorio; Zan si irrigidisce, il volto si incrina, e l’inerzia cambia lato.

Accusa il conduttore di cinismo, di difendere un governo che strapperebbe l’Italia dall’Europa, ma la voce affoga nel boato della platea.

Del Debbio non arretra: “Il vero cinismo è usare l’Europa come scudo quando mancano gli argomenti. Attaccare Meloni non perché sbaglia, ma perché non si sa come contrastarne la forza è combattere contro la propria impotenza.”

Zan prova il rilancio sui diritti, sulla libertà, sull’idea di un’Europa madre ferita; le parole si dissolvono, troppa emotività, troppo poco contenuto.

Del Debbio resta di marmo: ricorda l’ascolto ritrovato dell’Italia a Bruxelles, ribalta l’accusa d’isolamento su chi urla senza proporre.

Zan ripete “non è vero” come un disco, ogni volta più stridulo, mentre l’autorevolezza scivola via.

Il colpo finale arriva freddo: “L’Europa non fallisce per colpa dell’Italia, ma perché è incompleta: niente governo unico, niente costituzione, niente direzione comune. Gli Stati Uniti sono una potenza perché sono uniti; noi siamo ventisette stati che litigano fingendo di cantare in coro. Questo è il problema, non Giorgia Meloni.”

Gelo, poi un applauso a onda investe lo studio; Zan annaspa in concetti e meccanismi, appare distante, professore di teoria mentre il pubblico chiede realtà.

Del Debbio lo lascia consumarsi, poi chiude come un referto: “Lei combatte contro fantasmi. La politica non è volume, è direzione.”

Restano due immagini che spiegano il momento: da una parte la rabbia che si disperde, dall’altra la logica che regge; in mezzo, un governo che, paradossalmente, esce più forte senza essere sul palco.

Quando le luci calano, la scena non somiglia a un talk, ma a una lezione: costruire con i fatti batte urlare per coprire la mancanza di idee.

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