Gentili telespettatori, buona giornata.
Carlo Nordio avverte sinistra e magistrati politicizzati dopo il referendum, e lo fa con un messaggio che suona come un programma di governo, non come una formula televisiva.
“Ecco che cosa farò: una riforma del processo penale”, annuncia, dando subito la misura della posta in gioco.
Non ha, non abbiamo, finito con voi, è il sottotesto che attraversa l’intervento, un monito diretto a chi per decenni ha confuso prassi giudiziaria con militanza mascherata.
Il ministro della Giustizia non intende frenare sulla riforma, e lo dice in modo netto: chiusa la parentesi referendaria, che auspica confermativa, si metterà mano al processo penale per riportarlo ai suoi primordi garantisti, richiamando l’eredità del professor Vassalli, medaglia d’argento della Resistenza e architetto di un codice che voleva difendere la libertà attraverso le regole.
Siamo al teatro PuntoZero del carcere Beccaria di Milano, durante la giornata conclusiva del nono congresso di Nessuno Tocchi Caino, un contesto che dà al messaggio la gravità delle mura e la concretezza della riforma possibile.
Nordio assicura che si sta lavorando a un nuovo codice di procedura penale che enfatizzi il garantismo in ogni snodo, dalla presunzione di innocenza alla certezza della pena, fino alla sua umanità e alla rieducazione del condannato.

Questi principi, afferma, devono trovare attuazione in questa legislatura, e l’esito del referendum dovrebbe facilitarne il varo.
Tra gli obiettivi dichiarati, c’è quello di limitare il più possibile la carcerazione preventiva, oggi percepita come una vulnerazione intollerabile della presunzione di innocenza.
Il ministro ricorda la riforma già approvata sui criteri per l’emissione degli ordini di custodia cautelare, con l’introduzione dell’interrogatorio preventivo, misura che entrerà in vigore a breve.
E sottolinea la scelta della composizione collegiale dell’organo che dovrà emettere le ordinanze di custodia cautelare, un passaggio che, nelle sue parole, rappresenterà un grandissimo vantaggio per la presunzione di innocenza.
Più persone a decidere se privare qualcuno della libertà, non più un solo magistrato, ma un collegio capace di filtrare azzardi, pressioni, derive.
Il richiamo al caso di Milano, con le sei persone finite ai domiciliari per una presunta corruzione nell’edilizia e poi scarcerate perché “i fatti non esistevano”, è un esempio che dà carne e sangue alla tesi del ministro.
Molti parlarono di “messaggio alla politica”, di operazioni che sembravano più atti simbolici che provvedimenti fondati su evidenze, ed è qui che Nordio innesta la sua linea rossa.
Prima di mandare dentro qualcuno, ci deve essere un collegio che decide.
Un gruppo che valuta, che discute, che si divide e si ricompone, che abbassa la temperatura delle pulsioni e alza la soglia delle prove.
In un organo collegiale può esserci chi non è corruttibile, chi non è politicizzato, chi non è ideologizzato.
Se capita un magistrato che mette dentro sei persone “per mandare un avvertimento”, la collegialità rende più difficile trasformare un provvedimento cautelare in un atto politico.
Più persone di diversa provenienza, più garanzie contro l’arbitrio, più limiti alle carcerazioni preventive che rischiano di essere strumenti di lotta, non di giustizia.
La presunzione di innocenza non è un ornamento semantico, è il cardine di una democrazia.
E se ci fosse stato un collegio decisionale prima di quei sei arresti a Milano, forse non ci sarebbe stato bisogno di liberare in corsa chi non doveva essere privato della libertà.
La sinistra e i suoi giornali, spesso Il Fatto Quotidiano, accusano Nordio e il governo di progettare leggi “pro impunità”, di favorire politici o amici degli amici, di rendere più difficile perseguire i reati dei potenti.
La risposta del ministro, implicita ma inequivocabile, è che l’obiettivo non è l’impunità, ma l’eliminazione delle storture, non per colpa di una legge malpensata, ma per la presenza, dentro il sistema, di attori politicizzati che usano gli strumenti per fare battaglie.
La linea è chiara: non si può entrare nella mente di un giudice, non si possono cambiare le idee di chi indossa la toga, ma si può cambiare l’architettura delle decisioni per impedire che un’idea diventi un potere incontrollato.
E allora si costruisce un filtro, una soglia, un meccanismo che costringe a portare prove, a motivare, a reggere il contraddittorio, a convincere non uno, ma molti.
Uno decide se mandare in carcere un imprenditore.
No, risponde la riforma, decidono cinque.

E quei cinque devono essere tutti d’accordo, o almeno raggiungere una maggioranza qualificata, perché la libertà non è un interruttore ma un bene supremo che richiede rigore.
Per essere tutti d’accordo servono prove, servono riscontri, serve un quadro che regga la tempesta del giudizio pubblico e la freddezza del diritto.
La filosofia di Nordio non disegna un porto franco per i reati, disegna un porto sicuro per i diritti.
Garantismo non vuol dire indulgenza, vuol dire precisione.
Vuol dire evitare che le misure cautelari diventino scorciatoie, pressioni, strumenti di comunicazione politica.
Vuol dire impedire che l’ordinanza sostituisca il processo, che il sospetto sostituisca la prova, che il clamore sostituisca la sostanza.
L’avvertimento alle toghe politicizzate è tutto in questa grammatica.
Si traccia una linea rossa, e la si traccia non contro la magistratura, ma contro l’uso improprio della sua forza.
La riforma del processo penale, in questa prospettiva, è un atto di ripristino, non di demolizione, un tentativo di riportare la giustizia al suo lessico originario.
Il ministro scandisce anche un messaggio di durata politica.
“Questo lo può fare solo un governo che dura”.
La continuità è la condizione per cambiare davvero, perché le architetture istituzionali non si riscrivono con decreti lampo, ma con iter, confronti, audizioni, verifiche.
I governi di prima, dice Nordio, duravano sette-otto mesi, facevano debito, davano mancette per campagna elettorale, perché sapevano che il tempo era contato.
Qui, invece, si mette mano al codice, si riscrive il processo, si ricalibra la cautela, si ridisegna la responsabilità.
È un progetto che non si limita a parziali ritocchi, ma a un nuovo codice di procedura penale che enfatizzi garantismo e umanità della pena.
La certezza della pena, ricorda, deve essere compatibile con il senso dell’umanità, e la sua funzione rieducativa non è un cappello retorico, ma il cuore dell’articolo 27 della Costituzione.
Limitare la carcerazione preventiva significa ricordare che la custodia è eccezione, non norma, e che la libertà prima del giudizio è il terreno su cui si misura la civiltà di un Paese.
La collegialità delle decisioni cautelari introduce un secondo pilastro, un pluralismo interno che riduce la probabilità di abusi e di errori.
L’interrogatorio preventivo inserisce un terzo pilastro, la voce dell’indagato prima del provvedimento, il diritto di farsi ascoltare prima di essere privato dei diritti.
In questo quadro, l’accusa di favorire “gli amici” appare come un luogo comune che non regge il peso delle misure concrete.
Un sistema che chiede più prove, più motivazioni, più contraddittorio, più responsabilità condivisa è un sistema che alza l’asticella della legalità, non che la abbassa.
Il messaggio alla sinistra è dunque politico e culturale.
Non si può ridurre l’ambizione riformatrice a una caricatura.
Non si può continuare a leggere ogni intervento sulla giustizia come una vendetta o una protezione.
La giustizia non deve essere né vendicativa né protettiva, deve essere giusta.
E giusta significa rispettosa della presunzione di innocenza, severa quando le prove lo impongono, incapace di piegarsi all’onda del giorno.
Lo scontro totale sulla giustizia passa anche per il racconto pubblico.
Ogni caso di arresto preventivo che si sgonfia dopo settimane è un colpo alla fiducia dei cittadini.
Ogni ordinanza che appare come un “messaggio” è una ferita alla neutralità.
Ogni fuga di notizie che costruisce colpe prima del dibattimento è una scorciatoia che diventa voragine.
La riforma non promette miracoli, promette metodo.
E il metodo, in giustizia, vale quanto il merito.

Restituire al processo la sua centralità significa ridurre l’uso spregiudicato delle misure cautelari.
Restituire al dibattito giudiziario la sua complessità significa togliere al clamore mediatico il potere di decidere.
È una promessa che divide perché tocca poteri, abitudini, carriere, equilibri.
È una promessa che rassicura perché protegge diritti, persone, comunità.
Nell’orizzonte aperto dal referendum, Nordio vede una finestra di opportunità.
Una sinistra che attacca per riflesso, una parte della magistratura che si sente chiamata in causa, un Paese che chiede più giustizia e meno spettacolo.
La linea scelta è una sfida a decenni di potere e di linguaggi.
Non più il processo come epilogo di una narrazione costruita nei corridoi.
Non più la misura cautelare come strumento di storytelling.
Non più il sospetto come compensazione del vuoto probatorio.
La riforma alza gli argini, non perché diffidi dei giudici, ma perché rispetta l’uomo.
E rispettare l’uomo, nella giustizia, significa rispettare la sua libertà fino a prova contraria.
Significa rispettare la sua dignità anche quando sbaglia.
Significa rispettare la sua possibilità di cambiare, perché la pena rieducativa non è buonismo, è responsabilità.
In controluce, si intravede una ridefinizione del rapporto tra politica e magistratura.
La politica scrive regole che non difendono se stessa, ma i cittadini dagli usi distorti delle regole.
La magistratura applica regole dentro cornici più esigenti, più trasparenti, più condivise.
Le derive ideologiche perdono terreno non perché vengono cacciate, ma perché vengono rese impotenti dal pluralismo interno e dai requisiti di prova.
In un Paese che ha sofferto di processi interminabili, di richieste di misura che paiono editoriali, di indagini che sembrano campagne, la promessa di un codice garantista è il ritorno all’essenziale.
Non c’è giustizia se la libertà è trattata come variabile accessoria.
Non c’è democrazia se la presunzione di innocenza è un ostacolo e non un faro.
Non c’è civiltà se la pena è umiliazione e non rieducazione.
Nordio chiude con una traiettoria politica che suona come un invito.
Avanti, perché solo un governo che dura può cambiare.
Avanti, perché il tempo delle riforme non è quello delle polemiche, ma quello delle righe scritte.
Avanti, perché lo Stato di diritto ha bisogno di mani ferme e di voci basse, non di microfoni caldi.
La sfida è enorme, la linea rossa è tracciata, e il conflitto è già aperto.
Ma se la giustizia torna a essere giustizia, e non campo di battaglia, allora lo scontro avrà avuto un senso.
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