ESCLUSIVO! TOMMASO CERNO SCATENA IL CAOS AD ATREJU: SCONTRI FURIBONDI, SUSSURRI CHE ROVESCIA LA POLITICA, IL PD TRA STUPORE E RABBIA!
Non era un discorso. Era un’autopsia in diretta, eseguita con la lucidità glaciale di chi conosceva l’anatomia della vittima, muscolo per muscolo, nervo per nervo. E la vittima, quel giorno, aveva un nome: il Campo Largo. 🔥
Benvenuti su Scandalissimo, il luogo dove le verità scomode non vengono edulcorate, ma vengono sbattute in faccia come un bicchiere d’acqua gelida. Prima di proseguire, preparatevi: questo non è il solito bla bla politico. Questo video nasce per disturbare. 💥
Il protagonista? Tommaso Cerno, un nome che da solo è una detonazione. Uno che la Sinistra l’ha respirata, l’ha vissuta, ne parla la lingua segreta. E proprio per questo, la sta mettendo in crisi come nessun oppositore esterno avrebbe potuto fare.
Sul palco di Atreju non è salito un nemico prefabbricato. Non è salito il villain che la narrazione ufficiale si aspetta. È salito un infiltrato, uno che conosce il codice d’accesso ai nervi scoperti del Partito Democratico e del suo fragile, precario “Campo Largo”. E sapete cosa ha fatto? Li ha toccati tutti, uno per uno, con la precisione di un chirurgo che non usa anestesia.
Il Campo Largo. Quello che dovrebbe essere inclusivo, progressista, pluralista. Invece, in quel momento, ha mostrato il suo lato meno raccontato: l’imbarazzo. L’irritazione quando qualcuno parla senza aver chiesto permesso. La rigidità spaventata quando il dissenso non arriva dai soliti avversari di comodo. Il fastidio viscerale quando una voce fuori schema demolisce la narrazione ufficiale con la sola forza dei fatti.
Cerno non è lì per dire alla gente cosa pensare. Fa qualcosa di infinitamente peggiore per il PD. Dice ad alta voce quello che non dovrebbe essere detto, neanche sussurrato.
E mentre la Sinistra, quella che predica l’apertura a ogni costo, si chiude a riccio come un’ostrica in paura, il pubblico capisce: questo non è un intervento da convegno. Questo è il momento in cui il Campo Largo smette di essere un progetto politico e comincia a sembrare un equilibrio precario fatto di slogan, silenzi strategici e parole misurate col contagocce.

E quando qualcuno salta il copione, il sistema va in tilt. Il politically correct finisce in cortocircuito. 😱
Se credi che la politica italiana sia tutta uguale, continua a leggere. Se invece pensi che certi discorsi non si possano più fare, allora sei esattamente nel posto giusto. Qui non si applaude. Si osserva l’esplosione.
Preparatevi a scoprire cosa è successo. L’aria è cambiata in un istante preciso.
Non è successo all’ingresso. Non è stato l’applauso automatico. Succede quando capisci che quello non è venuto a fare presenza. È venuto a rompere qualcosa.
Parte con una citazione che sembra innocua, quasi nostalgica. Una foto ingiallita tirata fuori dal cassetto. Peppe Grillo. Applausi nervosi. Qualcuno sorride, qualcun altro si irrigidisce. Perché quando citi Grillo, o stai per fare una battuta innocua, o stai per dare una sberla che farà malissimo.
E infatti, la prima domanda arriva come un sasso nello stagno, increspando l’acqua quieta della narrazione: “Com’è possibile che davanti alle esecuzioni in Iran non scenda mai in piazza nessuno?”
Non è una domanda retorica. È un’accusa avvolta nella seta della curiosità. E il silenzio che segue non è distrazione. È imbarazzo puro. Congelato.
Perché in un Paese dove si scende in piazza per tutto – dal clima alla carbonara, dal linguaggio inclusivo al sessismo nelle favole – davanti alle donne impiccate con una gru, cala una quiete sospetta. Un silenzio che urla più di mille cortei.
E allora lui affonda il coltello. “Dov’è finito il femminismo militante?” Quello che per anni ha occupato talk show e balconi. Dov’è quando una donna viene picchiata, zittita, velata, uccisa in nome di Dio?
Secondo la sua analisi, il problema non è l’assenza. È la selezione. Si difendono solo le “donne giuste”, quelle che non disturbano la narrativa. Quelle che non obbligano a prendere posizione contro certi, scomodi alleati ideologici. È la grande ipocrisia mascherata da attivismo.
E qui arriva il primo colpo basso, di quelli che fanno male perché sono elementari: “Una donna libera mostra il volto perché vuole, non perché qualcuno glielo concede.” Ma questa frase, dice lui, oggi è diventata indicibile. Pericolosa. Quasi fascista.
Da quel momento, il discorso smette di essere un intervento e diventa un’autopsia a cielo aperto.
L’autopsia di una sinistra che, secondo il narratore, non si è solo persa, ma ha deciso deliberatamente di cambiare pelle. Non più difesa dei diritti universali, ma gestione delle cause. Non più libertà, ma pacchetti ideologici preconfezionati, da comprare e sventolare a seconda della convenienza.
E i partiti? Sono coinvolti fino al collo. Non i soliti extraparlamentari. Non i centri sociali folkloristici. Proprio loro. Quelli con i loghi, i segretari, i gruppi parlamentari.
Accolti in pompa magna: testimonial sempre più imbarazzanti, attivisti presentati come profeti, ma trattati come scorie da qualunque Paese democratico, appena escono dai confini italiani. Personaggi che insultano, minacciano, sfidano apertamente la democrazia occidentale e che, però, vengono accolti in Parlamento, fotografati, coccolati. E guai a fare domande. Chi chiede spiegazioni diventa islamofobo, reazionario, servo del potere.
Secondo il racconto di Cerno, l’operazione è raffinata, ma nemmeno troppo. Usare il dolore, i morti, le guerre, il conflitto israelo-palestinese come clava politica.
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Trasformare Hamas in una comparsa scomoda ma necessaria. Rendere l’islamismo presentabile perché tanto c’è la Destra al Governo e contro la Destra vale tutto. È il grande, cinico teatro dell’assurdo.
Esempio: la flottiglia. Barche, telecamere, parlamentari in posa, dirette televisive, sguardi intensi verso l’orizzonte. Tutti eroi, tutti resistenti, tutti pronti a rompere l’assedio. Fino a quando le luci si spengono. Fino a quando finiscono nei salotti TV. Fino a quando, improvvisamente, Gaza non interessa più a nessuno.
Secondo lui, non era solidarietà. Era casting. Una parte recitata per il pubblico italiano, finanziata da chi con la pace non ha mai avuto molto a che fare.
E mentre si demonizza Israele come un regime dittatoriale, si dimentica un dettaglio fastidioso, ma fondamentale: È l’unico posto della zona dove se un Governo non piace, si vota. Non si piazza una bomba, non si manda un kamikaze, non si festeggia la morte dei civili. La democrazia è noiosa, lenta, imperfetta, ma funziona così. E questo, per qualcuno, è inaccettabile perché non produce il caos necessario per la retorica.
Il discorso diventa una giostra impazzita quando si passa al capitolo Pride. Bandiere palestinesi ovunque, slogan contro Israele, accuse di genocidio. Peccato che proprio quei manifestanti insultino gay e lesbiche che arrivano dall’unico stato del Medio Oriente dove l’omosessualità non è un reato.
Nei Paesi idealizzati, invece, gli omosessuali finiscono appesi, letteralmente. Ma questo dettaglio non entra mai nei discorsi ufficiali. Rovina l’estetica della rivoluzione da salotto.
E allora la provocazione diventa esplicita, tagliente, quasi un urlo: “Se avete così a cuore i diritti, andate a manifestare a Teheran, non a Roma! Non sotto casa degli altri! Non pretendendo pure l’applauso!”
Da qui in poi, il racconto scivola sul terreno più domestico, ma non meno esplosivo: i centri sociali. Occupazioni trasformate in “presidi culturali”, edifici sequestrati diventati intoccabili perché decorati con graffiti che improvvisamente vengono paragonati alla Cappella Sistina. Proprietari ignorati, soldi pubblici spesi. Ribelli stipendiati.
Secondo questa visione, è la rivoluzione col conto corrente dei genitori. È l’eversione autorizzata. È la violenza giustificata dal linguaggio giusto. Se lo Stato prova a intervenire è repressione. Se non interviene è complicità.
E in mezzo ci sono sempre gli stessi: quelli che pagano.
Il nome di Piantedosi spunta come un’eccezione, quasi un’anomalia. Un Ministro che prova a dire che no, non tutto è lecito, che la piazza non può essere organizzata aspettando il “morto giusto” per alzare il livello dello scontro.
Secondo il narratore, qualcuno quel morto lo aspetta davvero. E non lo dice in modo leggero. Lo dice come chi sa che certe frasi girano, certe strategie si pianificano. Un’accusa così pesante che l’aria ad Atreju si fa irrespirabile. I sussurri si moltiplicano. Chi ha sentito queste voci? Chi le sta coprendo?
Poi il siparietto finale. Le occupazioni. Le case. Le campagne elettorali fatte sul caos. La cultura ridotta a scusa. Dante sostituito da quattro teppisti col coltello.
La domanda che chiude tutto è semplice e velenosa. Il vero fulcro del discorso: “Perché i partiti in Parlamento non prendono mai le distanze?”
Perché quei mondi sono collegati. Politicamente. Economicamente. Elettoralmente. Secondo Cerno, l’obiettivo è chiaro: aumentare i numeri, facilitare la cittadinanza, sperare che i voti arrivino da quegli ambienti. Peccato che, nota con sarcasmo velenoso, non abbiano comunque mai vinto un’elezione solo grazie a questa strategia.
Il finale non è un urlo. È un avvertimento che suona come una campana a morto per la libertà di pensiero.
La libertà non è più scontata. Qualcuno vuole decidere cosa pensi, cosa dici, cosa leggi, come ti definisci. Vuole dividerti in categorie, lettere, etichette. E se non accetti, sei il nemico.
Il palco di Atreju in quel momento non è solo un evento politico. Diventa un fastidio. Un problema. Un luogo dove qualcuno osa dire che la libertà oggi ha una direzione precisa. E citando Grillo, il cerchio si chiude. Non perché sia d’accordo con tutto, ma perché ricordare che si può ancora parlare, oggi, è già un atto sovversivo.
Applausi fragorosi, nervi scoperti e un video che, ovviamente, non doveva circolare.

Tommaso Cerno non ha attaccato persone. Ha messo in difficoltà una narrazione. Quella di una sinistra Campo Largo che ama definirsi pluralista, ma solo finché nessuno esce dalla riga. Finché il dissenso è controllato. Finché non disturba.
E il PD? Nessuno replica davvero. Perché replicare significherebbe spiegare. E spiegare significherebbe ammettere che il Campo Largo è grande nelle parole, ma strettissimo nelle idee.
La vera domanda non è se Cerno abbia ragione o torto. La vera domanda è: perché basta un discorso per mettere così in agitazione un intero Partito Democratico?
Se questo video ti ha fatto storcere il naso, sorridere o arrabbiare, perfetto. Vuol dire che non era innocuo. E su Scandalissimo, quando un video dà fastidio, è esattamente quello giusto da guardare fino alla fine.
E ora la domanda è per voi, che siete arrivati fin qui, incollati al dramma: Davvero possiamo ancora fidarci di chi ci racconta favole sulla democrazia e i diritti civili, mentre l’unico vero paese democratico del Medio Oriente viene attaccato ogni giorno? O forse è il momento di rompere il silenzio e dire basta?
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