🔥 Lo studio è silenzioso, ma nessuno è tranquillo. La tensione è così densa che si potrebbe quasi toccare.

Le luci fredde e impietose illuminano il volto tirato di Maurizio Landini, chiamato a spiegare quell’accusa al vetriolo – la parola “cortigiana” – lanciata contro la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Di fronte a lui, mezzo sdraiato sulla poltrona con la sua postura iconica, c’è Vittorio Feltri. Sguardo stretto, labbra serrate, un misto letale di ironia e disgusto trattenuto.

Il segretario sindacale prova a giustificarsi, dice che è solo una metafora politica, che nessuno voleva offendere sul piano personale, ma ogni parola sembra fargli perdere terreno. Dall’altra parte, il direttore aspetta. E quando deciderà di parlare, non userà guanti.

Il conduttore introduce il tema con tono grave, ricorda il putiferio nato da quell’insulto alla Presidente del Consiglio. Landini si aggiusta gli occhiali, inspira a fondo. Il volto è rigido, ma negli occhi si legge irritazione.

Cerca un registro controllato, spiega che quell’espressione sarebbe stata usata in senso politico, non personale. Secondo lui, si sta gonfiando una polemica sul linguaggio per evitare di affrontare il merito. Dice che voleva denunciare la subordinazione del governo e di Meloni a poteri economici e politici internazionali.

Quell’immagine, insiste, sarebbe solo un modo colorito per parlare di dipendenza politica, non di moralità individuale. Richiama la figura storica del cortigiano al servizio del potente.

Mentre parla, Vittorio Feltri non lo interrompe. Resta appoggiato allo schienale, le braccia conserte, la penna che gira fra le dita. Muove appena il capo, un cenno di dissenso quasi impercettibile, un sopracciglio che si alza, un mezzo ghigno. Sono gesti piccoli, ma chi conosce Feltri sa che lì sta già maturando la replica che farà male.

Landini prova a spostare il discorso sul terreno che conosce meglio: il Paese Reale. Ricorda salari fermi, inflazione che erode le buste paga, contratti bloccati, aziende che chiudono o delocalizzano. Sostiene che il governo dia più peso alle polemiche mediatiche che alle richieste dei lavoratori.

La mano del segretario si allarga in un gesto ampio, quasi teatrale. Vuole ridare dignità al proprio ruolo di difensore di chi lavora. Secondo lui, si sta usando quella frase per zittire la critica sociale, per oscurare le piazze, gli scioperi, la fatica quotidiana di chi non arriva alla fine del mese.

Vittorio Feltri continua a osservare. Immobile, poi abbassa lo sguardo sulla penna, la fa ruotare con più decisione. L’aria è quella di chi ascolta una tesi che non lo convince per niente, ma che preferisce far finire per poi colpirla al punto più debole. La tensione nello studio cresce.

Il conduttore, sentendo che il quadro è completo, si volta verso il direttore. Chiede a Feltri una valutazione non solo sulla parola, ma sull’intera difesa di Landini.

Vittorio Feltri si raddrizza lentamente sulla poltrona. Non ha fretta. Fa un sospiro lungo, più di insofferenza che di fatica. Quando parla, il timbro è ruvido, graffiante.

Comincia con sarcasmo. Dice che abbiamo appena assistito a una “lezione di alta metaforologia”, come se si fosse a un convegno accademico. Riduce la spiegazione di Landini a un “esercizio di furbizia linguistica.”

Ricorda che il segretario non è uno sprovveduto, usa le parole da decenni, conosce bene il peso di certi termini. Sottolinea che “cortigiana” ha un significato preciso per chiunque, non servono manuali di semiotica, e che tentare di trasformare un’espressione oggettivamente offensiva in una sottile figura retorica sarebbe, a suo giudizio, “un insulto all’intelligenza del pubblico.”

Qui Feltri alza appena la voce, giusto quanto basta per far capire che la pazienza è finita.

Poi sposta il fuoco sull’ipocrisia dei doppi standard. Dice che se un’espressione del genere fosse uscita dalla bocca di un esponente di destra, si sarebbe scatenato un putiferio infinito, ma siccome a pronunciarla è stato un leader sindacale vicino alla sinistra, allora si parla di metafore e fraintendimenti.

Landini stringe le labbra, le mani si muovono nervose sul tavolo. Il suo corpo tradisce il disagio prima delle parole.

Feltri non si ferma, ritorna sul punto più doloroso: il ruolo del sindacato.

Ricorda a Landini che guida una delle organizzazioni più grandi del Paese. Gli rinfaccia di passare più tempo a lanciare invettive in televisione che a chiudere contratti, difendere salari, occuparsi di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Il direttore, con tono sempre più duro, descrive una CGIL trasformata da bastione dei lavoratori a “comitato di indignati permanenti.” Dice che si concentra più sul linguaggio, sulle cause alla moda, sulle battaglie identitarie che sulle buste paga erose dall’inflazione. È un’accusa pesante: tradimento della missione originaria.

Feltri chiede, quasi scandendo: “Quando è stata l’ultima volta che avete fatto uno sciopero vero per un aumento di stipendio concreto? Quando avete difeso una fabbrica che chiudeva senza disperdere energie su mille temi secondari?”

Landini prova a intervenire, muove la mano come per chiedere la parola, ma il conduttore non lo ferma e Feltri lo copre con il tono. È il momento in cui la posizione del segretario si fa più fragile, perché ogni tentativo di replica sembra fuori tempo.

La demolizione procede. Secondo Feltri, il sindacato si sarebbe trasformato in una sorta di “circolo etico” allineato con il pensiero progressista dominante, più preoccupato di non sbagliare termine che di ottenere risultati misurabili per chi lavora.

Tu da casa senti che non è solo uno scontro sul lessico, è un processo al modo in cui una parte della sinistra e del sindacato usa il palcoscenico mediatico.

Poi Feltri cambia ritmo, la voce torna più bassa, ma non meno dura. Immagina il lavoratore iscritto alla CGIL che rientra a casa dopo una giornata massacrante e accende la televisione. Si chiede cosa pensi, vedendo il suo segretario impegnato a spiegare che un insulto così evidente sarebbe in realtà una metafora sofisticata, mentre mutui, affitti e bollette pesano sulle spalle.

È un’immagine che colpisce. Nel racconto di Feltri, la scena di un leader sindacale impegnato a giustificare un termine sessista appare come la fotografia di una distanza enorme tra il vertice e la base.

Landini, intanto, non è più il dirigente combattivo di inizio serata. Le spalle sembrano più basse, la postura meno rigida. Prova due volte a prendere la parola, poi rinuncia. Gli occhi non incrociano più quelli di Feltri.

Il conduttore percepisce che si è arrivati a un limite. Prova a rientrare, ma Landini non sfrutta la mano tesa. Fa un movimento secco, si stacca dalla poltrona senza guardare nessuno.

È un gesto brusco, pieno di nervi. Non ci sono frasi finali, non c’è una contro-argomentazione, c’è solo il corpo che si alza e si dirige verso l’uscita dello studio con passo rapido. Niente saluti, è una ritirata arrabbiata.

Le telecamere lo seguono per qualche secondo, poi la regia torna sul tavolo. Feltri resta al suo posto, non esulta, non alza la voce. Si limita a un mezzo sorriso amaro, lo sguardo ancora duro.

In quello studio, alla fine restano due immagini: da una parte, il segretario che lascia la scena dopo aver tentato una giustificazione che non ha convinto; dall’altra, il giornalista che rivendica con brutalità l’idea che un leader non possa nascondersi dietro le parole quando sbaglia bersaglio.

E il vero nodo per chi guarda è proprio questo: la critica sociale può ancora avere forza quando si appoggia a insulti che aprono il fianco a chi ti accusa di aver smarrito rispetto, misura e contatto con le persone che dici di rappresentare? Quel silenzio di Landini è la risposta muta a questa domanda. 💥

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